Sotto la cappa del partito unico la realtà politica cinese si muove e lo fa incalzata dagli eventi, a dimostrazione che l’impatto del coronavirus potrebbe avere conseguenze inattese anche sulle dinamiche decennali del regime comunista di Pechino. Troppo presto per dirlo, certo, ma bisogna leggere le foglie del tè per provare a capire che direzione prenderà la Repubblica Popolare nei prossimi mesi o anni. Sembra che nelle ultime settimane il vento sia girato. Dopo l’annunciato controllo dell’epidemia in patria, il treno della propaganda cinese si era messo in moto per esportare il suo “modello di efficienza” all’estero, specialmente in Europa, particolarmente in Italia, dove ha trovato un uditorio disponibile a recepirne il messaggio. Così si è passati dalla fase dell’emergenza, a quella del contenimento, a quella degli “aiuti”, fino a proiettare la nazione responsabile del disastro a esempio da seguire, grazie alla complice collaborazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Ma le ultime due settimane hanno fatto registrare per la Cina, a livello diplomatico e di immagine, più rovesci che successi, come se il maldestro tentativo di mascherare le proprie responsabilità avesse provocato una reazione inattesa nell’unica potenza in grado di contrastarne le velleità, gli Stati Uniti. Da qui il contrattacco di Washington su due fronti principali: da un lato le accuse di connivenza con gli insabbiamenti e i silenzi del regime cinese rivolte ai vertici dell’OMS, con l’annunciato blocco dei finanziamenti come misura di ritorsione; dall’altro i dubbi sull’origine del virus e sull’operato dei due laboratori di Wuhan, prima sollevati dalla stampa indipendente (Washington Post e CNN non sono certo media favorevoli a Trump) e poi fatti propri anche da fonti ufficiali dell’intelligence americana. Un vero e proprio pressing quotidiano, rinnovato anche ieri dal segretario di stato Mike Pompeo: “Abbiamo davvero bisogno che il governo cinese si apra. Uno dei modi migliori che potrebbero considerare per cooperare sarebbe quello di far entrare il mondo, permettere agli scienziati del mondo di conoscere esattamente come è successo, come esattamente questo virus ha iniziato a diffondersi”.
E Pechino comincia a sentire la pressione, come dimostra una prima significativa correzione sul numero di vittime dell’epidemia nella città di Wuhan, passate da 2.500 a 3.800 dopo un’improvvisa “revisione dei dati“. Certo, si tratta solo della punta dell’iceberg di una cifra di contagiati e morti di cui probabilmente non sapremo mai la dimensione reale, ma allo stesso tempo della dimostrazione che l’inazione o la passività delle democrazie vengono interpretate dal regime di Pechino come un via libera al tentativo di estendere la propria influenza a livello globale. Anche se i sinologi avvertono che la Cina e l’Unione Sovietica della stagnazione hanno poco a che vedere a livello politico ed economico, la natura dei rispettivi regimi risponde in fondo alle stesse logiche: quando l’Occidente si mostrava deciso nel pretendere il rispetto della dissidenza, Mosca liberava o rivedeva le pene di qualche attivista per i diritti umani, salvo tornare al carcere duro non appena l’attenzione internazionale si rivolgeva altrove. Purtroppo, come si sa, oggi le democrazie sono tutt’altro che unite nella difesa dei propri principi e interessi ed è in queste crepe che Pechino si sta insinuando con quello che, con un eufemismo politicamente corretto, viene definito soft power.
Ma torniamo alla città proibita e alle sue dinamiche interne. È di domenica scorsa la notizia della caduta in disgrazia del vice-ministro di pubblica sicurezza, Sun Lijun, su cui è stata aperta un’inchiesta per “serie violazioni della disciplina e della legge“. Si tratta della formula comunemente usata per il regolamento di conti all’interno del partito, in una parola per purgare elementi che non si considerano più in linea con i dettami del centro. Le stesse accuse erano state formulate per giustificare l’arresto dell’ex costruttore Ren Zhiqiang, già membro di alto livello del Partito Comunista, diventato negli ultimi anni uno dei principali critici di Xi Jinping. La differenza è che, colpendo Sun Lijun, la scure arriva fino al livello ministeriale, ovvero ai vertici del potere, e soprattutto prende di mira un funzionario di un organismo essenziale al mantenimento dell’ordine interno, oltretutto implicato direttamente in due dei punti caldi dell’attuale scenario politico cinese: Wuhan e Hong Kong. L’ultimo incarico assegnato a Sun Lijun di cui si abbia notizia, infatti, è relativo proprio alla gestione della crisi nella capitale dell’Hubei da dove è partita la pandemia. Trattandosi di un esponente di primo piano dell’apparato di sicurezza, non è difficile farsi un’idea della natura dei suoi compiti nell’epicentro della crisi. Ma, in quanto responsabile del potente First Bureau, un’agenzia del ministero strutturata a immagine e somiglianza dell’analogo ufficio del defunto KGB, Sun Lijun aveva competenze dirette anche su Hong Kong dove, proprio il giorno prima, il regime aveva proceduto all’arresto di quindici note personalità del movimento pro-democrazia, tra cui l’ex presidente del Partito democratico Martin Lee, il sindacalista Lee Cheuk-yan, il magnate Jimmy Lai e la giurista Margaret Ng. Per tutti l’accusa è quella di “organizzazione e partecipazione a assemblee illegali“, in riferimento alle manifestazioni dello scorso ottobre che Pechino qualificò come “rivolta“. Nonostante alcuni di loro siano stati rilasciati sotto cauzione, si tratta di un atto politico di enorme rilevanza, in quanto destinato a colpire il cuore dell’opposizione democratica di Hong Kong a pochi mesi dalle elezioni legislative di settembre. Una stretta repressiva dagli evidenti fini esemplari, che arriva nel pieno della crisi sanitaria mondiale, nel contesto di un divieto generalizzato di manifestazione e che si unisce all’ondata di detenzioni di attivisti, avvocati e giornalisti verificatesi nelle ultime settimane in Cina in seguito alla diffusione di notizie riguardanti l’epidemia. Difficile per il momento ricostruire il possibile collegamento fra i recenti avvenimenti sul campo e la destituzione di Sun Lijun con l’accusa di corruzione, ma è certo che si tratta di un importante anello della catena di comando eliminato dalla scena politica, come successe già nel 2018 a Meng Hongwei, ex presidente dell’Interpol, anche lui in carica all’epoca come vice-ministro di pubblica sicurezza, condannato poi a tredici anni e mezzo di prigione. Vittime recenti della pulizia interna al partito anche il segretario della provincia dell’Hubei, Jiang Chaoliang, e il numero uno della sezione del PCC di Wuhan, Ma Guoqiang, rimpiazzati da fedelissimi di Xi Jinping. Evidentemente qualcosa non ha funzionato nella celebrata risposta al Covid-19.
Possiamo interpretare questa rinnovata tendenza alle epurazioni come il tentativo di Xi Jinping di rafforzare una leadership che sente in qualche modo minacciata? È ipotizzabile la presenza di fazioni interne al partito proprio nel momento in cui i servizi di propaganda sono impegnati in una campagna di promozione del presidente ai limiti del culto della personalità? Forse parlare di spaccature è eccessivo, ma è certo che negli ultimi mesi abbiamo assistito a segnali che potrebbero incrinare la percezione di un regime monolitico, arroccato attorno alla sua guida suprema. In Cina gli indizi si traducono soprattutto in filtrazioni e, recentemente, ce ne sono state di significative. A partire da quella, clamorosa, che nel novembre scorso ha messo a disposizione del New York Times e di altre importanti testate internazionali quattrocento pagine di documenti riguardanti i campi di internamento per musulmani nello Xinjiang. Una conferma del programma di reclusione e “rieducazione” messo in atto dal governo cinese, che ne aveva sempre negato il carattere persecutorio, e una denuncia inappellabile della strategia repressiva promossa dallo stesso Xi Jinping, il cui coinvolgimento diretto nella campagna risultava palese dagli archivi pubblicati. Ma pensiamo anche alle lettere di critica circolate in rete che chiamano direttamente in causa la gestione dell’emergenza coronavirus da parte delle autorità cinesi: su tutte, gli scritti di Zhao Shilin, ex membro del comitato centrale e riconosciuto professore universitario, in prima linea nel lamentare i danni della disinformazione di Stato e nel ricordare che la vicenda del dottor Li Wenliang “ha dimostrato il costo umano della soppressione dell’opinione pubblica“. In un contesto controllato come il web cinese, è praticamente impossibile che un’opposizione così contundente alle politiche ufficiali possa diffondersi senza alcuna complicità all’interno dell’apparato di partito. Intanto, sulla televisione del Falun Gong (New Tang Dinasty TV, con sede a New York), due giorni fa, è stato reso noto un altro documento ufficiale che confermerebbe nero su bianco le istruzioni governative trasmesse a fine dicembre ai laboratori di ricerca incaricati delle analisi, con l’ordine di distruggere i campioni in loro possesso e di informare gli organi centrali prima di pubblicare qualsiasi risultato (ne avevamo parlato qui): un ritardo colpevole di due settimane, decisivo nell’espansione del contagio, seguito poi dalla chiusura del Shanghai Public Health Clinical Center che aveva comunicato di propria iniziativa il genoma completo del nuovo coronavirus. A questo si aggiungano le previsioni catastrofiche sull’economia cinese, rilasciate dalle principali entità bancarie del Paese, da interpretare in una prospettiva di incertezza del tutto inusuale a quelle latitudini e certamente non gradite ai vertici del potere.
Se leggiamo le foglie del tè, è possibile che la proiezione internazionale della Cina come modello alternativo alle democrazie liberali nasconda in realtà un’insospettabile fragilità interna i cui risvolti potranno essere decifrati solo nei prossimi mesi. Non è da escludere che l’embrione di lotta di potere che sembra intravedersi dietro le quinte del grande teatro di Pechino possa svilupparsi in un senso non previsto dai sinologi e dai simpatizzanti del partito filo-cinese (spesso le due categorie coincidono). Io consiglierei di non perdere di vista il Ministero degli esteri, dove Zhao Lijian, il portavoce che ha accusato gli Stati Uniti di aver introdotto il virus a Wuhan, è ancora al suo posto, nonostante i malumori che le sue posizioni hanno suscitato in alcuni ambienti governativi e diplomatici. Anche se può sembrare una questione secondaria, il suo futuro politico ci dirà qualcosa di più sugli equilibri della Repubblica Popolare ai tempi del coronavirus.