Priti Patel: icona Tory contro la identity politics

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Lei è Priti Patel, ministro dell’interno Tory del governo di Boris Johnson. Lui, Sir Philip Rutnam, è – anzi, era – il Permanent Secretary del ministero, una specie di segretario generale dell’Home Office. Alla fine, nel conflitto perenne tra politica e tecnica, e tra mandato popolare e pubblica amministrazione, ha vinto lei, ma con degli strascichi non da poco: Sir Philip Rutnam è apparso di fronte alle telecamere della Bbc la scorsa settimana per annunciare le sue dimissioni dal Civil Service britannico con l’intenzione di fare causa al governo e accusando Patel di metodi poco ortodossi per un ministro. A quanto pare, da quando nel luglio 2019 è diventata Home Secretary la parlamentare dell’Essex utilizzerebbe il pugno di ferro nei confronti della macchina amministrativa del suo ministero, senza curarsi troppo di toni, procedure e gerarchie. Un nuovo affronto per Whitehall, già colpita a fondo dai metodi – ancor meno ortodossi – del consigliere capo di Johnson, Dominic Cummings, che più volte si è lamentato dell’inefficienza dei mandarini al vertice della PA britannica.

Di recente Patel ha ottenuto una importante vittoria sul fronte della sicurezza, modificando il Justice Act del 2009 sulla liberazione dei terroristi recidivi, inasprendo la norma. Era una delle promesse di Johnson e del suo governo dopo gli attentati al London Bridge poco prima della tornata elettorale del 12 dicembre scorso. Patel è una fedelissima del premier, essendo stata accanto a Boris per tutta la durata della campagna elettorale per il referendum sulla Brexit nel 2016: una brexiteer dura e pura che osò sfidare il suo stesso governo guidato da David Cameron favorevole al Remain. Ministro da diversi anni con incarichi sempre maggiori – dalla cooperazione internazionale al lavoro – è stata una delle punte di diamante della campagna Vote Leave e anche una sostenitrice della campagna di Johnson per la leadership del Partito conservatore.

Una conservatrice sia in tema di sicurezza che in tema di diritti civili dunque, poco incline al compromesso e dai metodi spicci. In economia contribuì in prima persona alla scrittura di “Britannia Unchained”, un libercolo del 2012 in cui faceva mostra di un credo thatcheriano in favore di meno tasse e meno stato. Per lei si prevede un futuro ancora più in alto se manterrà fede alle aspettative e alle sue ambizioni, anche se per il momento non ci sono dubbi sulla sua fedeltà al governo che ha finalmente portato a termine la Brexit dopo quasi 4 anni di dither, indugi.

Subito dopo le dimissioni di Sir Rutnam, si è scatenata la caccia al ministro, peraltro sostenuta pubblicamente dal premier. Laura Kuenssberg, il capo della redazione politica della Bbc, ha definito il suo addio “irrituale”, puntando il dito più sui metodi di Patel che non sull’improvvisa scelta del Permanent Secretary. Il Guardian le ha dedicato un lungo articolo intitolato “Chi è la vera Priti Patel?” in cui si dice esplicitamente che a Whitehall la si considera poco più che una strega, maleducata e altezzosa. (La Commissione sull’Odio avrebbe tanto di cui occuparsi in Inghilterra…) L’opposizione laburista si è scagliata contro di lei: secondo il Labour il governo Tory starebbe mettendo in seria difficoltà il Civil Service e la sua proverbiale imparzialità (che tale, per la verità, non è mai stata).

La realtà è che Patel è criticata perché nell’immaginario della sinistra woke non è la donna che ci si aspetta debba essere: non è femminista, non è socialista, non usa in modo vittimistico il suo essere minoranza etnica BAME (Black Asian and Minority Ethnic) per conquistare posizioni di privilegio nel dibattito politico e porsi come inattaccabile per via della sua provenienza indiana (è nata nel Gujarat 48 anni fa). Ora la Camera dei Comuni le chiede di chiarire riguardo le accuse di bullismo formulate dall’Home Office e dall’ormai ex capo del ministero: come al solito lei si difenderà con le unghie senza versare lacrime e senza cercare la pietà di nessuno.

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