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Punto Brexit: a Londra il Parlamento è già tornato protagonista. È la democrazia, bellezza

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Il giorno decisivo avrebbe dovuto essere martedì prossimo, 11 dicembre, con la votazione della House of Commons sull’accordo raggiunto tra Theresa May e l’Unione europea per sancire definitivamente i termini del divorzio. Quindi sarebbe dovuta trascorrere ancora una settimana fatta di tessiture da parte del primo ministro per raccogliere i numeri necessari a superare la scoglio, con un Partito conservatore ormai affaticato dalle divisioni interne, l’atteggiamento ondivago dei laburisti di Jeremy Corbyn e le minacce degli alleati unionisti nordirlandesi di schierarsi con l’opposizione.

Ma il giorno decisivo – se non lo è stato, poco ci manca – si è palesato esattamente sette giorni prima, quando martedì 4 il governo è stato sconfitto tre volte ai Comuni, accusato di vilipendio dagli stessi parlamentari e obbligato a rendere pubbliche le osservazioni del procuratore generale sugli aspetti legali della trattativa tra Regno Unito e Ue: pareri che, in sostanza, sottolineano come il Regno corra il concreto rischio di finire invischiato in estenuanti e continue trattative e con una parte di esso, l’Irlanda del Nord, ancorata all’unione doganale indipendentemente da come le stesse trattative possano concludersi. Non sarebbe Brexit, né soft né hard, quanto piuttosto un miscuglio di carte, interpretazioni, articoli e codici. Ovviamente c’è dell’altro che si palesa come risultato nel giorno più difficile per la May e il suo esecutivo: il Parlamento si ritrova ora nella posizione di intervenire ed emendare un eventuale nuovo accordo tra le parti in causa. Un passaggio epocale in una transizione epocale: sin dall’inizio, infatti, il primo ministro si era mosso per evitare che i Comuni partecipassero attivamente all’ingarbugliata questione, arrogandosi il diritto di sottoporre all’assemblea un testo finito perché venisse approvato o meno, provocando già malumori tra gli stessi Conservatori che però, almeno inizialmente, hanno ingoiato il rospo. La fronda guidata invece da una deputato Remainer, Dominic Grieve, ha ribaltato lo schema.

Se uno dei leit motiv della campagna referendaria del fronte del Leave era stato quello di riassicurare al Parlamento britannico il primato legislativo a discapito delle direttive europee, ecco che allora, grazie paradossalmente all’intervento di un Remainer, i Brexiteers sono stati accontentati, come dimostrato da una gigioneggiante Boris Johnson durante il dibattito di martedì pomeriggio.

Ufficialmente non esiste un “piano B” sul quale a questo punto i Comuni potrebbero intervenire, come più volte ribadito dalla May, ma alcune cronache dettagliate da Westminster lasciano intuire il contrario. Dati i numeri risicati su cui poggia l’Esecutivo, data la complessità della materia e dato lo scontro agguerrito tra le fazioni all’interno dei Tories, ma anche dei laburisti, un paracadute – o meglio un backstop, una rete di protezione – è quanto mai necessario. Cos’è accaduto a Westminster il 4 dicembre lo ha riassunto molto bene Isabel Hardman, firma del settimanale The Spectator, a poche ore dagli eventi: se è vero come è vero che Brexit ha avuto molti effetti negativi sulla dissertazione politica britannica, è altrettanto chiaro che ha generato un beneficio sottostimato, vale a dire quello di obbligare i parlamentari “a fare ciò che raramente tendono a fare: spulciare tra i dettagli che il governo chiede loro di approvare e controllare che tra essi non si nascondano malignità”. Rappresentanti richiamati dunque all’ordine, al loro scopo originario: valutare attentamente e seriamente l’interesse della nazione e del popolo dal quale sono stati eletti, come previsto dall’importanza dalla carica che coprono, assumendosene la piena responsabilità. Uno dei pilastri della democrazia rappresentativa moderna che spesso scompare dietro a procedure burocratiche, accordi a porte chiuse e do ut des dai brevi orizzonti.

Pronosticare la fine della partita che si sta disputando a Londra è roba che metterebbe paura a qualsiasi scommettitore, ma un dato di fatto resta: se il Parlamento si ritroverà ad essere protagonista principale delle trattative per definire i contorni di Brexit, i suoi componenti da una parte renderanno un servizio al ruolo che sono chiamati ad interpretare, dall’altro saranno valutati da una giuria piuttosto esigente e spesso solo osservante, gli elettori, senza alibi o giustificazioni. Ed è proprio questo il bello della democrazia, anche se troppo spesso tendiamo a dimenticarcelo.