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Putin cerca nel plebiscito costituzionale una nuova legittimità, ma la strada verso la riconferma è piena di insidie

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La Russia rischia di essere un eterno “vorrei ma non posso”, una superpotenza regionale schiacciata tra Cina e occidente, le cui incursioni per riaffermare la propria presunta influenza su Paesi vicini e lontani assomigliano a quelle di un elefante in una cristalleria

Un voto lungo una settimana. È il referendum sugli emendamenti alla Costituzione che Putin ha offerto in pasto ai russi in questo strano inizio estate moscovita. Ufficialmente per evitare code ai tempi del coronavirus, si può votare da casa, elettronicamente, depositando le schede in contenitori appositamente adibiti all’uso nei distretti di tutto il Paese. Il risultato è incontrollabile, nonostante gli osservatori internazionali in gita premio. L’esito è già scritto, l’unica incognita è il livello di partecipazione, che darà la misura del grado di disaffezione popolare verso il padre-padrone di tutte le Russie. Gli emendamenti si possono solo accettare o rifiutare in blocco, senza sottigliezze di sorta: se sei a favore dell’estensione dei mandati presidenziali devi essere anche contro il matrimonio omosessuale. C’è una logica tutta putiniana, in fondo a tutta questa messinscena. Il referendum è di fatto un plebiscito sulla figura del leader, sulla sua aspirazione a perpetuarsi ai vertici della Federazione fino (potenzialmente) al 2036. Quando a gennaio Putin annunciò la riforma costituzionale, i cremlinologi si sforzarono di vedervi un sincero tentativo di garantire un sistema di pesi e contrappesi che consolidasse la lunga e incerta transizione russa alla democrazia: più poteri al Parlamento, controllo assembleare del primo ministro, una presidenza più defilata, regole chiare sulla successione del capo dello Stato. Ma il 10 marzo la maschera cadde, complice un emendamento proposto dall’ex astronauta Valentina Tereshkova d’accordo con il Cremlino: mandati azzerati e possibilità per il presidente di ricandidarsi per altri due termini di sei anni. Perfino i fan più integralisti dell’ex agente del KGB rimasero con l’amaro in bocca: possibile che si trattasse solo di questo, che la sua ambizione di statista si limitasse al posto fisso sulla Piazza Rossa?

Nonostante l’ostentata sicurezza da uomo forte, che in ampi settori di opinione pubblica occidentale trova un’udienza specialmente devota, Putin è in questo momento il principale freno all’affermazione della Russia come potenza responsabile e credibile a livello internazionale. Lo iato tra una società civile che guarda al futuro e un potere ripiegato su se stesso e incapace di sottrarsi alla morsa dell’autoritarismo cinese si fa sempre più evidente. Putin sembra non rendersi conto che la Russia gli sopravviverà e che la storia continuerà senza di lui. Se nella sua visione l’opzione della riconferma fino al 2036 serve a “dare stabilità” alla nazione, che altrimenti si vedrebbe immersa in una serie di controproducenti lotte per il potere (evidentemente è questa l’idea che si è fatto dell’alternanza democratica), in realtà il meccanismo che il plebiscito mette in marcia è quello della personalizzazione delle istituzioni statali. Non uno stato di diritto fondato su norme e principi condivisi ma un sistema basato sulla legittimazione costante dell’autorità che in quel momento pretende di incarnarne l’essenza: una sorta di rivoluzione permanente senza rivoluzione, in cui la figura del leader è il centro attorno al quale ruota tutto il resto, poteri istituzionali, tessuto economico-industriale-militare, informazione e disinformazione, governo delle regioni, opinione pubblica. Putin dimostra, in questo modo, di non nutrire alcuna fiducia nei suoi più stretti collaboratori o nei suoi successori potenziali: l’élite è lui, lo Stato è lui. Una miopia gravida di conseguenze, perché è difficile che la società lo segua a lungo su questa strada.

Se è vero che è stato Putin a restituire alla Russia parte dell’orgoglio nazionale perduto nella dissoluzione sovietica, è altrettanto certo che il tempo passa per tutti, e quella dell’uomo solo al comando rischia di trasformarsi in una versione caricaturale di una traiettoria politica dagli indiscutibili meriti (per quanto sotto molti aspetti criticabile). L’insistenza quasi ossessiva sulla retorica della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, l’unico avvenimento dell’epoca sovietica che i russi possano legittimamente rivendicare come esito di popolo, si accompagna all’ansia di imporre la propria versione riveduta e corretta della storia del XX secolo, ad uso e consumo soprattutto interno ma non solo. Putin ha due esigenze: compattare i ranghi in un Paese sempre più complesso e sfaccettato e sedere al tavolo dei grandi sullo scenario internazionale. La Russia rischia di essere un eterno “vorrei ma non posso“, una superpotenza regionale schiacciata tra Cina e occidente, le cui incursioni per riaffermare la propria presunta influenza su Paesi vicini e lontani assomigliano a quelle di un elefante in una cristalleria. Il caso Ucraina è una ferita aperta nel cuore dell’Europa, che le cancellerie democratiche sperano si rimargini da sola, dimostrando ancora una volta la loro scarsa lungimiranza. Ma i dossier libico e siriano non sono meno scottanti. L’onda di nazionalismo su cui ha scommesso Putin è un collante che a lungo termine non può tenere: vanno bene le parate militari per il 75mo anniversario della Grande Guerra Patriottica (quest’anno peraltro piuttosto sottotono causa virus), vanno bene gli articoli di propaganda sulle riviste americane, ma c’è da pensare che i russi si aspettino altro dalla loro classe dirigente, soprattutto in un momento di crisi economica generale che rischia di minare seriamente le fondamenta del sistema. Anche la gestione del Covid-19, nonostante le dichiarazioni di circostanza, appare incerta: Mosca riapre, è vero, ed è il villagio Potemkin in cui risiede la stampa internazionale, ma la situazione nella periferia dell’impero è più fosca. Nella stessa San Pietroburgo i contagi continuano a crescere, ma sono le regioni più isolate a preoccupare, quelle in cui è più difficile misurare la corrispondenza dei dati ufficiali con la realtà sul campo. Come gli altri Paesi, anche la Russia uscirà dall’emergenza però stavolta sarà difficile anche per Putin vendere un’immagine di sicurezza e affidabilità: il presidente si è visto poco in questi mesi sul fronte dell’epidemia, ha preferito delegare decisioni e responsabilità per concentrarsi sulla storia mondiale e sul plebiscito nazionale.

La scontata approvazione della sua riforma costituzionale, comunque, non significa la sua automatica riconferma al vertice della nazione dopo il 2024. Ed è questo che in fondo non lo lascia dormire tranquillo. Per quanto il processo elettorale sia diretto dall’alto, per quanto le opposizioni vengano relegate ai margini della vita istituzionale, resistono in Russia spazi di libertà informativa e perfino di organizzazione politica impensabili in altri regimi di stampo autocratico (vedasi Cina). Anche nell’entourage putiniano, dove si muovono i cosiddetti “modernizzatori”, le acque non sono così chete come la vulgata ufficiale vorrebbe: nessuno dubita della fedeltà di Niabiullina, Siluanov, Belousov, Sobyanin o Shoigu, che devono a lui la loro carriera, ma è altrettanto certo che questo gruppo di tecnocrati-politici sa di rappresentare una potenziale alternativa alla sclerotizzazione che la proroga indefinita del mandato presidenziale implicherebbe. Lo stesso Putin è consapevole che la riconoscenza e la convenienza dei suoi da sole potrebbero non bastare a mantenerlo in sella fino alla vecchiaia e che la sua permanenza al vertice della Federazione dipenderà anche dalla posizione internazionale che riuscirà a ritagliarsi nei prossimi mesi: una delle ragioni della ritrovata assertività della Russia fuori dai propri confini potrebbe essere proprio questa, anche se i rapporti con l’occidente (e soprattutto con Berlino) oggi sembrano viaggiare più sulla canna del gas che su cammini diplomatici decisamente impervi. “Putin sta usando il voto per rendere la popolazione complice dell’estensione del suo ruolo”, osserva Andrei Kolesnikov per il Carnegie Moscow Center, alla ricerca di una rinnovata legittimità maggioritaria che in un certo senso consolidi quella “comunità mitica”, quell’unione tra popolo e presidente che ha da tempo in mente e che vede sul punto di realizzarsi. “Putin è adesso in se stesso un’istituzione, un’entità politica”, continua Kolesnikov, si dirige verso il traguardo ma non è detto che lo raggiunga: in fondo la sua base di consensi è al livello più basso di sempre, mentre il mondo degli affari si sente “abbandonato” e a un certo punto potrebbe perfino decidere di cambiare cavallo. Putin vincerà sicuramente il suo plebiscito ma la storia della Russia nel prossimo ventennio è ancora tutta da scrivere.