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Putin in difficoltà, ma ecco perché la sua guerra all’ordine democratico è destinata a continuare

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La Russia, l’unica nazione al mondo per cui la scritta “bambini” segnala un obiettivo militare, rischia di perdere la guerra che ha scatenato contro l’Ucraina meno di un mese fa. Ad indicarlo non è solo il conclamato stallo delle sue truppe sulle diverse direttrici dell’attacco ma soprattutto il repentino cambiamento nella narrazione riguardante gli obiettivi dell’invasione da parte della diplomazia di Mosca e dei commentatori occidentali filo-russi. Adesso che l’avanzata dell’armata di Gerasimov non sta procedendo secondo i piani, si tenta di far passare l’idea che Putin starebbe comunque raggiungendo i suoi obiettivi, ovvero la “neutralità” ucraina e il consolidamento delle posizioni nei territori contesi (Donbass e Crimea). In poche parole, se la realtà non corrisponde alle intenzioni della vigilia, si modificano le intenzioni a posteriori per far passare per vittoria quello che si sta rivelando un imprevisto ripiegamento tattico. Perché no, Putin non ha invaso l’Ucraina per ottenerne la “neutralità”, né semplicemente per tenersi il Donbass e la Crimea (che aveva già). Secondo la dottrina Putin, ampiamente esplicitata nei saggi e nei discorsi pre e post-invasione, l’Ucraina era un non-Stato che doveva essere “denazificato”, vale a dire decapitato politicamente e russificato.

Ma qualcosa è andato storto. Quella che si prospettava come una marcia trionfale verso Kiev si è impantanata in una serie di ostacoli di carattere bellico, logistico e psicologico: la resistenza ucraina e la compattezza della reazione occidentale sono state sottovalutate, la catena di comando ha subito pesanti perdite, l’obsolescenza tecnologica dei mezzi, i problemi organizzativi e perfino la carenza di cibo hanno fiaccato il morale delle truppe, la presunta supremazia aerea è stata efficacemente contrastata grazie anche ai sistemi antiaerei forniti dagli alleati. In definitiva, il previsto blitzkrieg si è convertito in pochi giorni in una guerra d’attrito vecchio stampo. Osserva la giornalista e storica Marina Valensise che Putin, prima che con la verità, ha un grosso problema con la realtà, peraltro punto debole di tutti gli autocrati circondati da una cerchia di fedelissimi che non osano contraddirli, finendo per assecondarne i deliri di onnipotenza. Da qui il malinteso sulla “operazione militare speciale” sul modello siriano e georgiano, diventata ben presto una guerra aperta in cui un popolo attaccato ha deciso di lottare innanzitutto per la sopravvivenza, poi per la libertà, infine per la sovranità e l’identità nazionale.

Sarebbe però ingenuo pensare che Putin stia cercando solo una via d’uscita onorevole, per venderla in patria e ritirarsi a vita privata. Se oggi Mosca appare disposta a cedere su alcuni degli obiettivi iniziali è solo per guadagnare tempo, riorganizzarsi e ripartire. Una pace a tutti i costi, una vittoria dimezzata o una mezza sconfitta non saranno sufficienti a scongiurare il pericolo che verrà. Tra le nazioni più consapevoli della sfida storica che la Russia ha lanciato alla civiltà occidentale, di cui Kiev è oggi l’avamposto, c’è la Polonia. In un recente articolo il ricercatore dell’ISPI Matteo Pugliese sottolineava l’attivismo di Varsavia volto a indurre i partners della Nato ad assumersi responsabilità dirette nella difesa del Paese aggredito. I polacchi si stanno armando, il budget della difesa è stato innalzato al 3 per cento del Pil, e sono convinti che non una pace qualsivoglia ma solo una vittoria dell’Ucraina potrà ostacolare le ambizioni espansive russe. Per farla semplice, conoscono la storia, perché l’hanno sofferta sulla propria carne. Sanno che la de-escalation, soprattutto quando il nemico è in difficoltà, è un errore fatale. Il dittatore di turno la interpreterà come un’autorizzazione implicita ad alzare la posta, se non oggi perché non può, domani quando le condizioni lo permetteranno. Ma oggi Putin è solo nel suo attacco all’Occidente, domani potrebbe non esserlo.

Bisogna tornare all’ideologia per comprendere la natura della minaccia e la necessità di farvi fronte. Quella della denazificazione è probabilmente la più colossale menzogna mai uscita dal territorio russo dopo i Protocolli dei Savi di Sion. Da dove nasce una campagna propagandistica così demenziale che fa numerosi proseliti anche in Occidente? Dal nucleo stesso del nazionalismo russo, riportato in auge dal putinismo dopo l’umiliazione della caduta dell’Unione Sovietica. L’idea è semplice e agghiacciante nella sua linearità: la Russia, nella versione estesa dello stalinismo, sconfisse l’ex alleato nazista (questo dettaglio è ovviamente omesso nella narrazione ufficiale) nel 1945 al termine della grande guerra patriottica. La retorica intorno a quell’avvenimento certamente centrale nella storia europea è stata abbondantemente alimentata in questi anni dal regime di Putin: adesso comprendiamo che non si trattava di una mera questione sentimentale ma di un vero e proprio programma politico.

Nella concezione revisionista del Cremlino chiunque si opponga alla Russia è automaticamente classificato come nazista, perché nessuno che non lo sia potrebbe non riconoscere il debito storico che – secondo questa visione – il mondo non ha mai adeguatamente ripagato. Oggi tocca all’Ucraina, ma il piano è espansivo: la Russia è la casa comune dei liberi e uguali, fuori c’è il nazismo. Basta questo per togliere ogni legittimità a chiunque sia considerato come potenziale avversario, nazioni, governi, culture, modi di pensare, alleanze che non abbiano Mosca al centro. Da qui l’identificazione di russificazione e denazificazione. Nessuno è a salvo, il prossimo nazista potrebbe essere chiunque di noi, qualunque persona, gruppo o entità che opponga resistenza alla dottrina del destino manifesto incarnata dalla Russia e dal suo duce.

Le prove sono sotto gli occhi di tutti. Dal 2008 in avanti, per tre volte la guerra ha bussato alle porte dell’Europa e per tre volte la minaccia è arrivata da Mosca (Georgia, Crimea/Donbass, Ucraina). Ma possiamo retrodatare l’inizio del neo-imperialismo russo all’assalto a Grozny (1999), replicato oggi a Mariupol, di cui alla fine del conflitto rimarrà solo lo scheletro di città martire, senza dimenticare le prove generali di “operazione speciale” portate a termine con la distruzione della Siria. La guerra di Putin non comincia il 24 febbraio 2022 ma nell’agosto 1999 con la campagna aerea contro la Cecenia. Se Putin non è Hitler, agisce in maniera simile, tastando il terreno, sfruttando le debolezze di chi potrebbe fermarlo e non lo fa, estendendo volta per volta i limiti della sua azione di conquista: in 23 anni – mentre l’Europa firmava contratti e gli Stati Uniti guardavano al Pacifico – la Russia passava da una guerra regionale contro un territorio di un milione di abitanti a una continentale contro una nazione di 45 milioni.

Per capire perché Putin non può semplicemente fare marcia indietro accontentandosi di qualche conquista territoriale (indipendentemente dall’esito dell’attuale campagna e dei negoziati che ne seguiranno) è conveniente soffermarsi un momento sulla lezione di Guglielmo Ferrero. Nei suoi saggi sulla natura del potere (“Potere, Le due rivoluzioni francesi”) lo storico italiano analizzava il rapporto fra governanti e governati sotto la lente della paura reciproca. Quanto più un governo considera precaria la propria legittimità, tanto più tende ad intensificare le misure repressive per prevenire rivolte popolari. Allo stesso tempo la popolazione teme il potere costituito da cui si attende precisamente la spirale violenta che lo Stato, nella sua versione autoritaria, promette. In questo equilibrio del terrore si gioca il destino politico di una nazione, in questo caso di più nazioni, la Russia e i vicini oggetto delle sue ambizioni neo-imperiali.

Il sistema Putin può sopravvivere solo se la dose di paura che è in grado di incutere all’interno e all’esterno cresce progressivamente. È la famosa escalation che alcuni credono ancora di poter placare con una de-escalation di intensità uguale e contraria, senza comprendere che ogni cedimento sarà interpretato come prodromico alla resa. La minaccia nucleare non è stata rispolverata per caso. Per questo la resistenza ucraina rappresenta non solo la legittima e necessaria difesa di un popolo aggredito ma l’unica risposta possibile al terrore di Stato che la Russia sta cercando di esportare. La sopravvivenza del putinismo è, a questo punto, incompatibile sia con quella dell’Ucraina come nazione sovrana sia del diritto e dell’ordine internazionali come concepiti dopo la Seconda Guerra Mondiale e le rivoluzioni anti-totalitarie dell’89.

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