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Putin mantiene la super-maggioranza e Navalny si sgonfia: non bastano i brogli a spiegare il voto

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In un eterno ritorno dell’uguale, il settembre russo consegna puntuale ogni cinque anni la maggioranza parlamentare voluta da Putin. Anche stavolta tutte le previsioni di logoramento, stanchezza e crepe interne al sistema sono state smentite davanti al risultato delle legislative nazionali che ha confermato la maggioranza qualificata dei due terzi per il partito del presidente, Russia Unita (RU): 315 seggi su 450, la metà dei quali assegnati su base proporzionale (RU è passata dal 54 per cento dei consensi del 2016 al 50% attuale) e la metà in collegi uninominali a turno unico. È qui che i putiniani hanno fatto il pieno, conquistando 199 rappresentanti su un totale di 225, ed è qui che si è schiantata – si suppone definitivamente – la strategia del voto utile promossa da Navalny per contrastare il partito al potere.

L’appello a votare chiunque potesse contendere il seggio a un candidato ufficialista non solo non ha spostato gli equilibri elettorali ma è servito alla fine esclusivamente a rafforzare il Partito Comunista di Zjuganov (PCR) che, per un effetto trascinamento sulla quota proporzionale, ha aumentato i suoi consensi dal 13 al 19 per cento. Si tratta di un risultato puramente simbolico, visto che il PCR non sarà comunque in grado di condizionare la governabilità del Paese, ma è chiaro che per l’attivista anti-Putin per eccellenza non può essere considerato un grande successo aver tirato la volata agli eredi sgualciti del regime totalitario sovietico.

Il problema di fondo del metodo Navalny, però, radica nella sua sostanziale impraticabilità in un sistema istituzionale blindato come quello russo, in cui anche l’opposizione formale è in realtà integrata nel meccanismo che consente a RU di perpetuarsi al potere. Se Partito Comunista, nazionalisti di Zhirinovsky, Russia Giusta e adesso anche la neo-eletta Nuovo Popolo altro non sono che minoranze organiche, a nulla serve dirottare sui loro rappresentanti voti che, in ogni caso, finiscono per essere controllati o quantomeno neutralizzati in sede parlamentare dal partito di Putin.

La schizofrenia a cui porta quest’azione di disturbo in un contesto come quello russo è dimostrata anche dai commenti di gran parte della stampa occidentale, spesso incongruenti nelle premesse e nelle conclusioni: non si può allo stesso tempo affermare che le elezioni sono truccate e che Navalny è riuscito ad assestare dalla sua cella un knock out a Putin, così come non si può insistere continuamente sull’assenza di un’opposizione reale a RU per poi affermare che il successo elettorale dei comunisti è un grande risultato del dissidente incarcerato. Wishful thinking. Il fatto incontestabile è che Navalny è politicamente fuorigioco e che la spinta del voto utile si è esaurita: se vuole sopravvivere all’oblio impostogli dalla repressione dovrà inventarsi qualcos’altro o sperare che le circostanze mutino a suo favore. Per adesso il signore di tutte le Russie resta Vladimir Putin, con le buone o con le cattive.

I sostenitori di Navalny affermano che le vittorie di Russia Unita nei collegi uninominali derivano da brogli elettorali, quelli del presidente che i numeri confermano la sua grande popolarità nel Paese. La verità, in questo caso, sta nel mezzo. È indubitabile che quelle russe siano elezioni pesantemente condizionate non solo dalla propaganda ufficiale e dall’esclusione dalle liste degli avversari più pericolosi ma anche da manipolazioni in fase di conteggio. L’inspiegabile ritardo nella comunicazione dei risultato del voto online nei distretti moscoviti è stato indicato da molti osservatori come la prova della costruzione a tavolino del risultato gradito al potere, ma nel corso delle tre giornate elettorali sono emerse numerose denunce di brogli anche in sede di scrutinio manuale e irregolarità di vario genere, mentre per la prima volta nessuna organizzazione internazionale è stata ammessa a certificare la regolarità del processo. Anche se è difficile valutare l’impatto concreto di queste situazioni, è lecito supporre che il sistema Putin abbia schierato tutti i suoi effettivi per garantire ancora una volta a RU la maggioranza qualificata dei due terzi della Duma, quota necessaria per le modifiche costituzionali.

Detto questo, bisogna però sottolineare che, mentre nelle democrazie liberali il voto è strumento dell’alternanza, il trentennio post-sovietico e soprattutto il ventennio putiniano hanno dimostrato che in Russia le elezioni si intendono più come un referendum confirmatorio, una ratifica dell’azione del potere costituito, che come una competizione fra fazioni opposte. Da qui l’importanza che assume, più che altrove, la percentuale di astenuti, che si assesta sul 50 per cento dell’elettorato attivo. È in questo spazio di non partecipazione che si esprime l’indifferenza o la protesta verso il sistema. Basti pensare al caso di Khabarovsk, città dell’estremo Oriente russo, teatro durante i mesi scorsi di intense manifestazioni contro la sostituzione del governatore della regione Furgal con un funzionario voluto da Putin. Degtyarev, questo il nome del prescelto, è stato riconfermato dal voto popolare, con il 57 per cento delle preferenze. Brogli a parte, questa apparente incongruenza indica in realtà che in Russia chi si oppone davvero al sistema generalmente non va a votare, mentre chi va a votare intende farlo per il sistema.

Ha ragione quindi chi denuncia la manipolazione del consenso ma ha ragione anche chi ricorda che l’appoggio espresso ad ogni tornata elettorale per il partito di governo (e i suoi satelliti) è in gran parte genuino. È così che Putin ha blindato il suo potere, usando i meccanismi della democrazia elettorale a suo favore e mettendo i suoi avversari di fronte ad una situazione lose-lose: se non partecipano – nemmeno col voto utile – ad una competizione che non è tale spariscono dall’orizzonte, se partecipano legittimano di fatto un risultato che considerano fraudolento ma che, sul piano formale, è difficilmente attaccabile.

Raggiunto l’obiettivo della maggioranza qualificata, Russia Unita non può comunque esimersi da qualche considerazione sul suo ruolo e sul suo effettivo appeal tra la popolazione. In primo luogo, considerando l’astensione, la percentuale reale di consensi si situa intorno al 25 per cento, dato che è abbastanza coerente con quel 30 per cento di approvazione che i sondaggi le assegnavano ma che lascia un’ampia fascia di non entusiasti, apatici o contrari senza padrini politici. Il futuro della democratura russa si gioca su un terreno ancora non occupato (né per il momento occupabile) da opzioni alternative (personalmente non considero Navalny una di queste, nemmeno da libero).

Poi c’è l’inattesa vittoria del Partito Comunista su RU nell’immensa regione della Yakutia, profondo nord-est del Paese: è la prima volta che il partito del presidente perde in una porzione di territorio così importante, sconfitta che si aggiunge ai buoni risultati ottenuti dai candidati comunisti in molte province orientali. Una delle domande che gli osservatori si pongono è in che misura il successo elettorale alimenterà le ambizioni di Zjuganov, trasformando gli eredi del PCUS in un’opposizione reale: per cominciare l’immarcescibile Gennady ha promesso battaglia sui seggi di Mosca, a suo dire (e a dire un po’ di tutti) attribuiti a RU solo grazie alla manipolazione del voto elettronico. Se si surriscalderà il clima nei prossimi giorni sarà proprio sui risultati della capitale.

Ma la battaglia sarà soprattutto interna al partito-guida, il cui futuro – nonostante la vittoria elettorale – non sembra così scontato, almeno non nella forma attuale. Come ha notato in un recente articolo l’analista politica Tatiana Stanovaya, esistono almeno due correnti di pensiero rispetto alla sua evoluzione: da una parte i conservatori (Turchak, Shoigu), i servizi di sicurezza e lo stesso Putin che continuano a vedere in RU un pilastro per il consolidamento del sistema; dall’altra l’ala più riformista che, pur senza discutere il progetto monopolistico del putinismo, vorrebbe aprire le porte a una nuova realtà politica, più adeguata ai tempi e in grado di gestire la transizione del dopo-Putin. Il risultato di domenica sembrerebbe confermare il prevalere della linea continuista ma, a ben guardare, proprio l’assenza di un’opposizione parlamentare degna di questo nome potrebbe alla lunga provocare una perdita di rilevanza di RU nell’equilibrio del potere. Quel che è certo è che il futuro della Russia non si scriverà né nella Duma di Stato né nella colonia penale di Pokrov, ma tra la Bolshaya Lubyanka e il Cremlino.

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