Nonostante la sconfitta annunciata dell’Isis, la Siria si conferma la polveriera del Medio Oriente. Tra le macerie del Califfato si stagliano le sagome dei veri attori del conflitto siriano. Dall’inizio nel martoriato paese si combattono potenze regionali con interessi contrastanti sotto lo sguardo interessato di due superpotenze avversarie come Stati Uniti e Russia. E se da una parte Putin ha avuto buon gioco, anni fa, a sfruttare il vuoto e le incertezze obamiane per inserirsi nella crisi siriana e far tornare la Russia in Medio Oriente dopo decenni di assenza, dall’altra la sua sete di protagonismo può costargli molto cara. Il moltiplicarsi dei fronti a cui stiamo assistendo, infatti, può mettere in difficoltà persino l’astuto presidente russo. Con l’intervento in Siria la Russia ha sì rimesso piede in Medio Oriente, e guadagnato posizioni sulla scena internazionale, ma come dimostrano i fatti degli ultimi giorni è ancora lontano quel trionfo strategico che Putin vorrebbe al più presto rivendersi in patria e di cui parlano alcuni “esperti”.
I partner su cui Putin ha fatto affidamento lanciando il processo di Astana – Iran e Turchia – non stanno collaborando alla stabilizzazione e alla pacificazione del paese, o meglio hanno una loro particolare visione di “stabilizzazione”. Visioni e interessi che sembrano addirittura collidere, come dimostrano gli scontri tra le forze fedeli ad Assad e le forze armate turche nel nordovest della Siria. L’incursione di Ankara nella regione di Afrin nasce infatti come risposta all’offensiva del regime siriano nella provincia di Idlib, una delle zone di de-escalation sotto la responsabilità turca ma ancora enclave dei ribelli filo-turchi. Ma le forze turche sono andate ben oltre la regione di Afrin, tentando di piazzare un avamposto tra forze pro e anti-Assad a sudovest di Aleppo. Questo perché l’operazione voluta da Erdogan è volta non solo contro le milizie curde Ypg (qui aiutate dai governativi in funzione anti-turca), ma anche a creare un collegamento con i ribelli anti-Assad legati ad Ankara. Controllare Afrin significa accorciare la distanza tra il territorio turco e Aleppo. Stabilire un avamposto a sudovest della città significa poterla minacciare direttamente e tenersi pronti per un eventuale attacco contro le posizioni del regime.
Ecco perché le forze fedeli ad Assad, di cui fanno parte anche milizie iraniane, hanno attaccato almeno due volte quelle turche. E perché persino il presidente iraniano Rohani è intervenuto definendo l’operazione turca una “flagrante violazione della sovranità della Siria”. Il silenzio russo è emblematico dell’ambiguità di Mosca, che avendo il controllo dei cieli in Siria dovrebbe in teoria avere l’ultima parola su qualsiasi operazione militare sul terreno. Ma è anche sintomatico delle sue difficoltà nel comporre gli interessi di tutti gli attori coinvolti per arrivare a una soluzione del conflitto siriano. Alla luce della tensione turco-siro-iraniana intorno ad Aleppo e Idlib, dove di recente i ribelli hanno abbattuto un Su-25 russo, e di quanto sta accadendo ai confini meridionali con Israele, appare ancora prematuro il disimpegno russo dalla Siria annunciato da Putin a fine anno scorso.
Ma se le schermaglie tra Ankara e Damasco (e quindi Teheran) nel nordovest del paese non sembrano escludere la possibilità di un compromesso in grado di tutelare gli interessi di entrambe, i piani iraniani di trasformare il territorio siriano in una base da cui lanciare provocazioni e attacchi contro Israele, tenendo lo Stato ebraico sotto costante minaccia, costituiscono un serio ostacolo alle ambizioni di Mosca a guidare con successo il processo di stabilizzazione.
L’ultima dimostrazione l’abbiamo avuta nella notte tra venerdì e sabato scorsi, quando l’Iran ha lanciato la sua prima operazione militare contro Israele. Un drone di fabbricazione iraniana partito da una base siriana è riuscito a penetrare nello spazio aereo israeliano prima di essere abbattuto da un elicottero Apache. Dopo circa un’ora alcuni F-16 israeliani hanno colpito il centro di comando iraniano situato nella base da cui era partito il drone, ma uno dei caccia è stato raggiunto dall’intenso fuoco della difesa anti-aerea siriana precipitando vicino Haifa, nel nord di Israele (salvi i due piloti). Con la provocazione del drone Teheran ha probabilmente voluto testare la risolutezza e la prontezza della reazione israeliana, ma anche dimostrare le accresciute capacità difensive siriane. L’F-16 israeliano è stato infatti inseguito da una ventina di missili a corta, media e lunga gittata. In un secondo raid lanciato poco dopo gli israeliani hanno distrutto, stavolta senza subire perdite, dodici obiettivi siriani tra basi e sistemi anti-aerei a sud di Damasco e nei pressi di Palmira. Il numero due dell’aviazione ha parlato della “più intensa missione aerea dalla guerra del Libano nel 1982”.
Sono entrati in azione i sofisticati sistemi di difesa anti-aerea russi in dotazione ai siriani, oppure si tratta di nuovi sistemi di origine iraniana? Ciò che è chiaro è che stiamo assistendo ad una escalation da parte di Teheran, rivendicata anche dai vertici di Hezbollah che hanno parlato dell’abbattimento dell’F-16 israeliano come di una “nuova fase strategica”. Dal punto di vista militare l’Iran e le sue milizie, come Hezbollah, hanno consolidato le loro posizioni e armamenti in Siria e Libano in modo da garantirsi il potenziale per poter infliggere un gran numero di vittime israeliane in un prossimo conflitto. Una minaccia esistenziale che Israele non può accettare.
Resta da chiedersi se i russi fossero a conoscenza dell’incursione del drone iraniano e dei ripetuti raid israeliani (che non hanno incontrato opposizione da parte russa). Certamente sono a conoscenza della strutturazione militare iraniana in territorio siriano. Ma i piani iraniani contro Israele sono nell’interesse di Mosca? E Putin può sottrarsi all’abbraccio di Teheran, le cui milizie sono state e sono ancora decisive nel puntellare il fragile regime di Assad?
Nel frattempo, in tre mosse (ruolo decisivo nella sconfitta dell’Isis; appoggio alle milizie curde nel nordest del paese; riaffermazione delle “linee rosse” nei confronti di Assad e delle milizie iraniane) gli Stati Uniti guidati da Trump hanno fatto capire che non sono disposti a mollare le posizioni acquisite nel teatro siriano. Non intendono sfidare il ruolo “guida” di Mosca, ma nemmeno lasciare campo libero. Insomma, la sensazione è che siano determinati a giocare un ruolo di interdizione rispetto ad una soluzione del conflitto a tutto vantaggio del regime di Assad e di Teheran, e a far capire a Mosca che senza Washington e i suoi alleati (curdi e Israele) può dire addio alla pacificazione del paese e ai suoi “sogni di gloria” siriani.
Pochi giorni fa l’aviazione Usa ha bombardato forze fedeli ad Assad, una colonna di oltre 500 uomini, che si dirigevano contro le Forze democratiche siriane, guidate dalle milizie curde Ypg, che controllano la regione di Deir ez-Zour a est del fiume Eufrate – una zona tra l’altro ricca di giacimenti petroliferi strappata all’Isis alla fine dell’anno scorso. Presenti anche circa 2.000 militari americani “embedded”. Un raid aereo eseguito in coordinamento con la Russia, ha fatto sapere il Pentagono. Un accordo fra Mosca e Washington prevede infatti che le forze pro-Assad, l’aviazione siriana e quella russa non possano operare a est dell’Eufrate, mentre gli Usa e i suoi alleati a ovest del fiume. Anche il ribaltamento della politica di Obama nei confronti dell’Iran e il ritorno al fianco degli storici alleati mediorientali – Israele e paesi del Golfo – dimostrano la volontà dell’amministrazione Trump di non cedere all’ineluttabilità di un’egemonia russo-iraniana.
E’ importante non interpretare la cautela americana in questa fase con un disimpegno. La politica confusa dell’amministrazione Obama in Medio Oriente, viziata da una volontà di fondo di ritiro e disimpegno dalla regione, ha aperto l’enorme varco in cui si sono potuti inserire Russia, Iran, Turchia e Isis. Trova inoltre nuove conferme in questi giorni la tesi secondo cui la riluttanza dell’allora presidente Obama a giocare un ruolo da protagonista in Siria era motivata in parte dal desiderio di non urtare gli interessi iraniani nel paese (la sopravvivenza del regime di Assad) per non compromettere i negoziati sul programma nucleare di Teheran. Una versione sostenuta anche dal consigliere di Obama Ben Rhodes, che difendendo questa scelta in un recente documentario ha spiegato che se gli Stati Uniti fossero intervenuti con maggiore forza in Siria, questa politica avrebbe dominato la politica estera del secondo mandato di Obama, rendendo impossibile raggiungere l’accordo sul nucleare con gli iraniani. Ma il trade-off con Teheran non avrebbe dovuto essere sospensione del programma nucleare e revoca delle sanzioni? L’aver lasciato campo libero agli iraniani in Siria si sta rivelando un prezzo troppo alto. Infatti, il regime iraniano non è mai stato così repressivo all’interno e aggressivo all’estero come dopo aver incassato i molteplici benefit dell’accordo.
L’amministrazione Trump ha quindi ereditato una situazione altamente pregiudicata a favore di Russia e Iran per quanto riguarda la possibilità di determinare il futuro della Siria. Impensabile riuscire a ribaltare in tempi brevi i rapporti di forza, ma alla lunga il cerino acceso potrebbe cominciare a scottare le mani di Mosca. La situazione siriana è sempre più intricata, anche per l’abile Putin. Oltre al non facile compito di ricomporre i divergenti interessi di Turchia e Iran, non può permettersi di rompere né con gli Stati Uniti né con Israele. Ed è sempre più evidente che né Netanyahu né Trump intendono concedere terreno all’asse russo-iraniano.