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Putin si prende il Donbass ma ha in testa Kiev: ora tocca all’Occidente fermarlo

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Putin non pone limiti alla missione di riconquista che si è assegnato. Sarebbe un errore, l’ennesimo, pensare che si fermerà al Donbass: il limite dipenderà unicamente dalla reazione e dalla compattezza dell’Occidente…

Che il Donbass sarebbe stato al centro degli avvenimenti che ruotano attorno all’Ucraina l’avevamo spiegato qualche giorno fa. Non bisognava peraltro essere dei raffinati analisti per intuire la direzione del vento, vista la richiesta di riconoscimento delle repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk che la Duma aveva già fatto pervenire ufficialmente al presidente Putin. Ieri la previsione si è compiuta in tutta la sua drammaticità: al termine di un improvvisato Consiglio di sicurezza in stile nordcoreano, trasmesso in diretta televisiva, il Cremlino ha comunicato prima a Scholz e Macron e poi alla nazione che riconoscerà l’indipendenza dei territori occupati dalle milizie filo-russe. È la fine degli accordi di Minsk e probabilmente di ogni speranza diplomatica di evitare un conflitto su larga scala. L’Ucraina non può accettare questa dichiarazione né le sue conseguenze pratiche e dovrà necessariamente reagire. Per l’Occidente è questa l’ora di tirar fuori gli attributi (se ancora ne è in possesso).

Putin avrà quindi la sua guerra e un abisso di incertezza si apre al centro del continente europeo. Con la firma del decreto presidenziale termina la finzione politicamente e ideologicamente orientata secondo cui l’Ucraina sarebbe in pericolo in quanto la Russia si sentirebbe “minacciata” dall’espansione ad Est della Nato: non siamo di fronte a una crisi ucraina ma a una crisi russa, sceneggiata, diretta e interpretata dal regime di Vladimir Putin. Un piano concepito da tempo e orchestrato in modo da condurre all’inevitabile epilogo di una destabilizzazione su larga scala del Paese, da attuarsi in fasi successive, con ogni probabilità attraverso la sua partizione e in ultima istanza l’assoggettamento di gran parte del suo territorio. La dottrina Putin, mirabilmente descritta da Angela Stent, subisce un’accelerazione decisiva che rende a questo punto estremamente improbabile qualsiasi soluzione negoziata.

Era una svolta annunciata dopo che venerdì scorso i leader dei ribelli, in concerto con Mosca, avevano decretato una surreale evacuazione della popolazione verso la zona di Rostov sul Don. Su autobus e mezzi di fortuna, anziani donne e bambini avevano cominciato a sfilare in una triste processione verso una destinazione finale sconosciuta, semplici pedine di un gioco più grande di loro, volto a creare artificialmente un casus belli, una situazione di emergenza da attribuire a un fantomatico attacco dell’esercito di Kiev, che ovviamente non ha mai avuto luogo. Da ieri il riconoscimento formale delle due repubbliche del Donbass apre la strada all’invio di truppe russe regolari in territorio ucraino e alla successiva occupazione delle zone orientali ancora sotto il controllo del governo di Kiev: una vera e propria ridefinizione dei confini, situazione che storicamente prelude allo scoppio di un conflitto generalizzato.

Il Donbass è parte integrante della Russia”, “l’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia” (Lenin), “avete voluto la decomunistizzazione, adesso vi mostreremo cosa sia la vera decomunistizzazione”: questo il nucleo di un messaggio presidenziale rivolto alla nazione ma diretto come una minaccia mortale a Kiev. Un discorso revisionista, dai risvolti paranoici, che chiama in causa le decisioni prese in passato dagli stessi leader sovietici e che lascia poco spazio all’interpretazione: la riconquista dell’Ucraina è cominciata e sarà realizzata con una guerra d’aggressione.

Non erano poi così propagandistici allora i messaggi su un’imminente operazione bellica risuonati da Washington nei giorni scorsi: il riconoscimento politico dei territori ribelli è già di per sé uno sconfinamento, un’invasione coperta, la premessa di un’espansione vedremo quanto graduale. D’ora in avanti in Ucraina esisteranno due stati-fantoccio che Mosca utilizzerà nella sua opera di destabilizzazione del Paese: obiettivo finale, un cambio di regime a Kiev e il ristabilimento del controllo politico, economico, ideologico e culturale sullo Stato vicino. Avremo modo di analizzare in dettaglio nei prossimi giorni le modalità e le prospettive del piano di riconquista russo, ma al momento è già possibile identificare con chiarezza i passaggi attraverso i quali si è sviluppato finora: 1) accumulazione di truppe ai confini con l’Ucraina; 2) formulazione di richieste irricevibili alla Nato e agli Stati Uniti; 3) petizione da parte della Duma del riconoscimento delle repubbliche separatiste; 4) evacuazione forzata dei territori del Donbass; 5) stazionamento permanente di truppe in territorio bielorusso; 6) richiesta di “assistenza militare e finanziaria” da parte dei ribelli filo-russi; 7) firma del decreto che riconosce l’indipendenza di Lugansk e Donetsk.

Cosa succederà adesso? Sarà fondamentale innanzitutto capire come reagiranno le cancellerie europee e la Casa Bianca, al di là della retorica di circostanza. Scartato un intervento armato, l’immediatezza e l’intensità delle sanzioni misurerà il livello di coesione del fronte occidentale. Il primo approccio è a dir poco sconfortante: il capo della diplomazia europea, l’ineffabile Josep Borrell, ha lasciato trapelare che le sanzioni potrebbero essere deliberate solo in caso di annessione da parte russa. Ma Mosca non ha alcun interesse in questo momento a procedere con un’incorporazione, dal momento che il conflitto nel Donbass – destinato ad esacerbarsi – è chiave nel suo progetto di destabilizzazione e divisione: le repubbliche separatiste servono al Cremlino come avamposti filo-russi in territorio ucraino, in modo da costringere Kiev a una risposta armata e giustificare così ulteriori sviluppi bellici. Ma anche le dinamiche politiche interne si vedranno alterate, a causa delle prevedibili spinte nazionaliste sul presidente Zelenskij per il recupero della piena sovranità sulle zone orientali.

Dovrebbe ormai essere chiaro che Putin non pone limiti alla missione di riconquista che si è assegnato: con la testa a Kiev, le mani sul Donbass e gli stivali ben piantati in Bielorussia (ormai de facto uno stato satellite di Mosca, appendice politico-ideologica e base militare), dipenderà esclusivamente dalla reazione delle democrazie occidentali stabilire le linee rosse che non potrà superare. Purtroppo, se siamo arrivati a questo punto, è soprattutto perché ci si è illusi di avere di fronte un interlocutore razionale, gestibile attraverso i canali diplomatici tradizionali, con il quale era più conveniente tentare di raggiungere compromessi politico-commerciali che confrontarsi sul piano dei principi e del vero realismo politico, che passava per la difesa incondizionata dell’Ucraina.

Disastrosa in questo senso l’eredità di Angela Merkel, che ha aperto le porte del continente a Putin con la nefasta gestione dell’affare Nord Stream 2, avallata anche dalla rinuncia di Washington a contrastarne il completamento e l’entrata in funzione. Putin ha letto quel passaggio fondamentale come una debolezza che gli avrebbe consentito di affondare. Per dirla con le parole di Medvedev ieri al Consiglio di sicurezza: “Sappiamo che ci saranno delle sanzioni, ma dopo un po’ l’Occidente tornerà da noi a elemosinare una relazione”. Il Putin-pensiero condensato in una sola frase.

Adesso sarà ancora più difficile sottrarsi al ricatto Nord Stream, con i gasdotti alternativi collocati in un campo minato, e l’ipoteca della crisi energetica sul groppone delle ingenue (chiamiamole così, per pudore) cancellerie europee. Fino all’ultimo Scholz e Macron hanno tentato di convincere Putin a desistere giocando la carta della formalizzazione della non-adesione dell’Ucraina alla Nato. Ma questa impostazione rivela un equivoco di fondo, che ha condizionato peraltro ogni ragionamento sulla possibilità di evitare un conflitto: per la Russia la garanzia anti-Nato non è mai stata un fine in se stesso ma semplicemente un mezzo per raggiungere l’obiettivo grosso, cioè il controllo dell’Ucraina e il ristabilimento di una propria sfera di influenza (leggasi stati satellite) sull’estero vicino. La maschera è caduta e con essa tutte le speculazioni sulla volontà del Cremlino di negoziare un nuovo sistema di sicurezza in Europa. Non si tratta con la pistola alla tempia, con la minaccia di un’invasione imminente, con il ricatto e la prepotenza. Putin in realtà non ha mai avuto alcun interesse a discutere un assetto condiviso con l’Europa e gli Stati Uniti, quel che voleva era semplicemente imporre quello che ha in mente. Sapendo che con le buone non avrebbe potuto mai raggiungere il suo proposito revisionista, ha deciso di usare le cattive, infilandosi in una strada senza uscita che lo costringe adesso ad alzare continuamente la posta in gioco.

Sarebbe un errore, l’ennesimo, pensare che il Donbass placherà la sua avanzata verso Kiev e poi – perché no – verso il resto dell’Europa centrale o baltica. Solo una deterrenza implacabile può farlo desistere o arretrare, a questo punto. Le sanzioni economiche e finanziarie devono essere applicate subito, con un meccanismo di progressiva intensificazione associato a precise linee rosse, la prima delle quali dovrebbe riguardare il rischio concreto di espansione all’interno dei “confini storici” del Donbass. Ma non solo. Occorre adesso una strategia condivisa che renda evidenti i costi politici (non solo economici) di un’ulteriore escalation, a partire dalla fornitura di assistenza finanziaria e militare all’Ucraina, passando per un isolamento diplomatico di Mosca a vari livelli, e per la riaffermazione della volontà di proteggere la sovranità ucraina, anche attraverso l’accelerazione di quei processi di adesione alla Nato e all’Ue che finora non erano all’orizzonte. La road map per contrastare le velleità della Russia non può più essere posticipata, siamo già fuori tempo massimo.

Wishful thinking, probabilmente, alla fine prevarranno il braccino corto e la tradizionale ricerca di un appeasement che, ancora una volta, non terrà conto della natura del regime che si deve contrastare. L’aggressione che incombe sull’Ucraina è il frutto di una completa tergiversazione delle reali intenzioni di Putin, dell’ideologia revanchista che le alimenta e di una colpevole sottovalutazione della degenerazione del suo regime nell’ultimo decennio. Nonostante i tentativi di illustri esperti, soprattutto nostrani, di creare una narrazione favorevole a Mosca e di attribuire all’Occidente – e agli Stati Uniti in particolare – una presunta strategia della tensione, la realtà è quella efficacemente riassunta dall’ex ambasciatore americano in Russia, Michael McFaul: “A un certo punto si deve smettere di trattare questa crisi come un test sulle differenti teorie astratte in materia di relazioni internazionali e cominciare a riconoscere il bene e il male. Un Paese si sta preparando a lanciare un’invasione preventiva e non provocata contro un altro. L’altro no. La Russia ha torto. L’Ucraina no”.

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