Si chiama “Putin’s Witnesses” (Testimoni di Putin) ed è il documentario che non ti aspetti sul leader del Cremlino. Diretto dal regista ucraino Vitaly Mansky e premiato allo scorso Karlovy Vary Film Festival, è probabilmente la più diretta approssimazione al presidente russo che sia mai stata realizzata.
Vent’anni fa Mansky ricevette l’incarico di produrre una serie di lavori sull’élite politica del Paese per la televisione di stato. In questa veste fu testimone, attraverso la sua telecamera, dei primi passi di Putin al potere, dal momento dell’investitura la notte del 31 dicembre 1999 – dopo le inattese dimissioni di Boris Eltsin – fino alla conclusione della campagna elettorale per le presidenziali del marzo successivo. Parte di quelle registrazioni sono diventate il materiale di questo straordinario ritratto di un presidente la cui ideologia è ancora oggi, a vent’anni dal suo insediamento, difficile da interpretare per analisti e storici.
Intorno a Putin si muove il “comitato elettorale” che lo sostenne all’inizio della sua avventura ai vertici della Federazione Russa, disegnandone una campagna vincente al margine della stessa contesa: mentre gli avversari si scannavano nei dibattiti, lui visitava i luoghi colpiti dal terrorismo ceceno e accoglieva Tony Blair in visita ufficiale, il tutto ovviamente con stampa e televisione al seguito. Un gruppo di collaboratori di fiducia in cui spiccavano il già allora braccio destro Medvedev, l’ideologo Surkov e il liberale Chubais, caduto in disgrazia dopo l’era delle privatizzazioni, ma sempre presente nel circolo eltsiniano. Ma soprattutto, nell’ombra, il vero artefice dell’ascesa di Putin, quel Valentin Yumashev che due anni dopo avrebbe sposato la figlia di Eltsin, Tatiana, e che convinse suo padre che l’ex agente del KGB era “un liberal-democratico rispettoso delle riforme di mercato”. Li si vede tutti riuniti attorno al tavolo imbandito ad aspettare i risultati del voto, un brindisi sobrio per celebrare e l’appuntamento per la prima riunione dello staff presidenziale l’indomani alle 10.
Putin emerge come un personaggio dalle idee chiare fin da subito, completamente cosciente del proprio ruolo di demiurgo dei destini di un popolo uscito con le ossa rotte dall’esperienza sovietica e dal decennio eltsiniano. Allo stesso tempo è ancora un politico accessibile, che accetta perfino confronti dialettici con Mansky su alcuni aspetti del mandato che si appresta a cominciare. È un periodo storico in cui la stampa gode di un ampio margine di autonomia, la Russia è un Paese confuso ma aperto come mai prima e l’opinione pubblica ha ricominciato a pensare e a criticare il potere. Eltsin, anch’egli protagonista del documentario e principale sponsor di Putin, ricorda come al momento della nomina a primo ministro, nell’agosto del 1999, la popolarità del suo pupillo era del 2 per cento. Pochi mesi dopo, in seguito alle stragi terroriste attribuite ai ceceni, sarebbe salita fino al 50 per cento. “In questi dieci anni abbiamo ridato la libertà a questo Paese”, affermava soddisfatto commentando il risultato delle elezioni, “e con Putin questa libertà è al sicuro”.
Mansky fa da contrappunto con i suoi commenti alle immagini che scorrono sullo schermo, forte certamente dell’esperienza reale del ventennio putiniano, ma dimostrando di intuire (lui sì) già dalle battute iniziali del nuovo corso in che direzione si sarebbe mosso l’oggetto misterioso che la Russia aveva appena iniziato a conoscere. Significative le domande che il regista rivolge al neo-presidente sulla natura “monarchica” del suo mandato: era l’anno I, nulla di quanto, in negativo, sarebbe accaduto nei due decenni successivi era stato annunciato o previsto (monopolio quasi assoluto del potere, limitazione delle libertà politiche e civili, assassini di giornalisti e oppositori, annessioni e conflitti armati), eppure Mansky fa dire a Putin che “lui non ambisce a trasformarsi in monarca perché non vuole rimanere al comando per sempre”. L’idea di un mandato ad oltranza era già implicita nella sua stessa negazione.
Il documentario contiene alcune scene davvero memorabili per gli appassionati del genere. La visita di Putin alla sua ex maestra di scuola a San Pietroburgo, mossa elettorale suggerita dallo stesso Mansky, in cui un imbarazzatissimo presidente in pectore si presta agli abbracci e ai baci della signora, che lo ammonisce: “Adesso tocca vincere davvero!”. Significativo il momento in cui Putin spiega ai suoi perché non contempla la partecipazione ai dibattiti televisivi: “Se facessi campagna dovrei spendermi in promesse che forse non potrei mantenere: non voglio ingannare gli elettori”. Questa avversione ai processi della democrazia elettorale sarebbe stata una costante del suo mandato. Mansky sottolinea che dello staff iniziale rappresentato nel documentario, pochissimi sarebbero rimasti al lato del presidente negli anni a venire: la maggior parte di loro sarebbe passata all’opposizione o espulsa dall’entourage del Cremlino. La chiusura del sistema putiniano è stata progressiva e graduale, la sensazione è che non rispondesse a un piano studiato dall’inizio ma piuttosto a cambiamenti sopravvenuti nel corso degli eventi.
Un’involuzione che certamente non si attendeva il suo grande mentore, Boris Eltsin, protagonista con la sua famiglia dei passaggi più personali e spontanei del film. Mansky fa capire fino a che punto Putin sia stata una creatura di Eltsin e come la sua ascesa e soprattutto la sua vittoria alle presidenziali siano state interpretate dal mandatario uscente come un successo personale. La famiglia riunita intorno al televisore, bambini compresi, in attesa della conferma di quel 52 per cento che significava il trionfo di Putin al primo turno. La chiamata di Eltsin al vincitore e la risposta dell’ufficio della presidenza: “La contatteremo noi”. Eltsin che aspetta accanto al telefono un gesto di cortesia e di riconoscenza che non arriverà, almeno quella notte.
Il documentario si chiude sulle note dell’inno sovietico, reintrodotto da Putin all’inizio del suo incarico. È l’occasione per un botta e risposta tra regista e presidente, impensabile oggi: perché ha preso una decisione con lo sguardo rivolto al passato invece che all’avvenire del Paese? “So che non tutti saranno d’accordo – risponde Vladimir Vladimirovich – ma era necessaria per ristabilire la fiducia della popolazione nello stato”. Uno stato che ha ucciso e oppresso i suoi cittadini, insinua Mansky. “Perché dobbiamo ricordare il Gulag e non i momenti eroici del nostro Paese?”, replica Putin. Parte da qui quel processo di memoria selettiva e revisionismo storico che rappresenta oggi il tratto distintivo della politica del Cremlino: per garantirsi il potere si può far tornare indietro la storia e adattarla alle esigenze del presente. È forse questa l’unica vera ideologia putiniana, il vizio originario che ha corrotto il suo ventennio, una dichiarazione di intenzioni a cui all’epoca ben pochi prestarono attenzione. Interpellato da Mansky sull’inno un anno dopo le dimissioni, è il capodanno del 2000, Eltsin non può trattenere una smorfia di disgusto: “È così rosso…”. Sipario.