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Quale politica estera per l’Italia?

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Si usa dire che il nostro Paese abbia costruito la propria politica estera entro tre cerchi concentrici: il primo costituito dall’area mediterranea, il secondo dalla relazione con gli altri Paesi europei e le istituzioni comunitarie, il terzo dal rapporto transatlantico e la NATO. Semplice e lineare, si direbbe. Sfortuna vuole che lo sia solo sulla carta. Quando si osserva la politica estera italiana, infatti, è difficile individuare un indirizzo e una strategia chiari; non abbiamo una scala delle priorità ben definita né abbiamo codificato ciò che costituisce il nostro interesse nazionale. L’Italia reagisce, non propone; l’Italia si accoda, non guida; l’Italia subisce, non impone. Dopo anni di politica estera inefficace e inefficiente ci siamo ritrovati impotenti nell’area mediterranea, poco considerati in Europa e non così rilevanti nei piani di Washington. Come è potuto succedere? Indiscusso, abbiamo dei limiti evidenti (che tutti si affannano a rammentare): dai vincoli di bilancio all’opinione pubblica, dal fardello storico all’insipienza di una certa politica. È bene ricordare, però, che il peso specifico del nostro Paese è superiore rispetto a quanto riesce a esprimere sulla scena internazionale: restiamo pur sempre l’ottava economia mondiale – davanti a Stati come Russia e Canada – e la terza dell’UE (escludendo l’uscente Regno Unito), membro del G7, Stato fondatore dell’Unione Europea e della NATO nonché ponte nel Mediterraneo. Forse, dunque, seguendo un disegno di politica estera più coerente e strutturato potremmo ottenere risultati più soddisfacenti.

Da dove partire? Innanzitutto, cinque sono i problemi principali che attanagliano la politica estera italiana: assenza di una chiara prioritarizzazione delle minacce; tendenza costante a porsi in una posizione mediana nelle questioni internazionali; difficoltà nel definire amici e nemici; impossibilità di utilizzare lo strumento militare nelle sue funzioni proprie; timore nell’affermare un’identità peculiare come singolo Stato e come membro del più ampio raggruppamento occidentale. Tutto ciò rende la politica – ma anche, talvolta, gli esperti – incapace di definire in modo coerente e spendibile l’interesse nazionale del nostro Paese, rendendo l’azione internazionale dell’Italia fumosa, poco efficace e spesso incoerente. Questo ci porta ad avere una leadership debole e, dunque, una perdita di influenza costante e l’incapacità di creare una strategia di medio-lungo periodo capace di essere proattiva oltre che reattiva (quando va bene) o impalpabile/dannosa (quando va meno bene).

Il primo passo è, di conseguenza, cercare di risolvere i cinque problemi principali sopra delineati. Innanzitutto, in un mondo sempre più diviso, dove la superpotenza americana fatica a mantenere in piedi le regole e le strutture che lo hanno governato negli ultimi settant’anni – e no, Trump non ne è la causa ma solo la conseguenza – pensare di poter fungere da mediatore universale ed evitare di prendere una parte nelle più importanti questioni internazionali non è una soluzione valida. L’Italia deve tornare ad affermare, con chiarezza, la sua posizione nel mondo; Roma deve cessare di nascondere le peculiarità dell’Occidente di cui fa parte e, al contrario, proporle come segni distintivi di cui andare fieri. Come scriveva Huntington nell’ormai lontano 1996, l’Occidente non è universale, ma indubbiamente è unico. Questa specificità non va nascosta dietro il paravento costituito dalla volontà di non creare attriti con altre culture: è con il rispetto dato e ottenuto, e non celandosi, che si riesce a condurre una politica efficace. Il riconoscimento del “noi” non deve presupporre, dunque, un disprezzo del “loro”. Questo porta, però, a una considerazione: non si può evitare di considerare come una sfida l’esistenza di attori che si oppongono al nostro sistema o, addirittura, vogliono rovesciarlo. I valori, così come il potere relativo, devono essere considerati nell’insieme strategico più ampio. Forse non possono essere la variabile principale in gioco, ma sicuramente una della quale tenere conto.

Bisogna, inoltre, iniziare a considerare le Forze Armate come uno strumento di diplomazia e proiezione dell’influenza del Paese. Inutile negarlo: lo strumento militare ha, ancora, un peso cruciale nelle dinamiche internazionali. Chi non ha delle Forze Armate rispondenti al peso che pretende di avere nel sistema internazionale è destinato a contare meno. Infine, serve una chiara prioritarizzazione delle minacce. Non è possibile, per un Paese come l’Italia, considerare come minaccia principale – o addirittura unica – il terrorismo. Per fare un esempio crudo in merito, nessun attentato terroristico – della tipologia vista fino a ora in Europa – potrà mai causare all’Italia un danno uguale a quello che deriverebbe dalla chiusura prolungata del canale di Suez che, attualmente, ha un volume commerciale quattro volte superiore al canale di Panama. L’esito sull’economia mondiale sarebbe notevole e l’Italia, uno dei porti di arrivo delle merci ivi transitanti, ne sarebbe colpita in modo peculiare. Come Paese mediterraneo dovremmo avere la capacità di intervenire in situazioni simili. Attualmente, però, le Forze Armate sono ideate primariamente in funzione di difesa del territorio nazionale, nonostante non si vedano all’orizzonte minacce convenzionali capaci di mettere a prova il nostro strumento militare sul suolo patrio. Tale assetto, dunque, dovrebbe fare posto a Forze Armate più duttili e capaci di condurre operazioni di proiezione della potenza almeno nell’area MENA, in vista di una seria difesa del nostro interesse nazionale. Insieme a quella materiale, naturalmente, dovrà emergere una consapevolezza “spirituale” in merito, ma qui siamo su un piano differente e, purtroppo, ancora più complesso e scivoloso. Questo non significa, indubbiamente, assegnare un peso irrisorio alla minaccia terroristica (che resta rilevante, soprattutto per il rischio di vederla combinata con l’utilizzo di armi di distruzione di massa), ma sarebbe doveroso iniziare a preoccuparsi anche di questioni tipo quella sopra delineata.

L’Italia, purtroppo, non osa farsi domande cruciali per la sopravvivenza di ogni Paese; è arrivato il momento di invertire la rotta. Questo bisogna chiedere al nuovo Governo: elaborare una strategia di politica estera olistica, di medio-lungo termine, capace di offrire uno spaccato chiaro e ordinato delle minacce al nostro Paese, non timorosa di definire amici e nemici, non timorosa di perseguire un interesse proprio anche se, talvolta, in antagonismo con alcuni partner – in primis quelli europei, dato che, a differenza nostra, si muovono giustamente in tale senso –, e non più timorosa di posizionare il nostro Paese in un campo, quello Occidentale, che non è compatto ma sicuramente condivide tutta una serie di assunti basilari non rinvenibili altrove. C’è solo da augurarsi che il prossimo Governo voglia intraprendere scelte difficili ma non più rimandabili per dare all’Italia una politica estera degna del suo peso e capace di confrontarsi con le sfide del XXI secolo.