Quali ministri e programmi per Draghi, tra sofferenza Pd/5Stelle e centralità Lega/FI?

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È bastato un nome, un nome solo per dar vita ad una larghissima maggioranza parlamentare ancor prima di conoscere sia il programma, se non per qualche titolo e spunto, sia lo stesso Esecutivo, quest’ultimo rimasto del tutto riservato, sì da costituire un ghiotto boccone per il quotidiano fanta-giornalismo. C’è stato un movimento che si è dimenticato di essere cresciuto a partito, sì da rinnovare il rito della consultazione del suo referente associativo tramite la piattaforma Rousseau, poco più di centomila iscritti a fronte di dieci milioni di elettori, all’insegna di una variante nana della democrazia diretta. Solo che c’era incertezza circa la risposta della consultazione, sì da indurre i big a cercare di indirizzarla: suggerendo, prima, di farla con piena conoscenza del programma e dell’assetto ministeriale, sì da evitare una apertura di credito alla cieca, ma qui con la probabile ferma opposizione di Draghi, costretto a battere il passo in attesa della via libera grillino; concludendo, poi, di effettuarla subito, non senza aver preparato il sì con un intervento salvifico di Grillo e con un quesito addomesticato. Un vero piccolo capolavoro, che procede dal sostegno ad un governo tecnico-politico, un compromesso rispetto al governo solo politico richiesto inizialmente; prosegue col varo di un super-Ministero della Transizione ecologica e col mantenimento dei “principali risultati raggiunti dal movimento 5Stelle” (?); per chiudere pudicamente col riferimento alle “altre forze indicate dal presidente incaricato Mario Draghi”.

Con quest’ultima espressione si occulta la vera e profonda difficoltà che non solo i 5 Stelle, ma la stessa sinistra storica, Pd e Leu, provano circa la compresenza, all’interno di una maggioranza quasi plebiscitaria, di Forza Italia e Lega; solo che le maggiori incompatibilità sono diverse, se pur sempre personalizzate nelle figure dei leader: per i 5 Stelle, Berlusconi; per il Pd e Leu, Salvini. Sembra quasi che ci sia la speranza che Draghi escluda queste forze se non esplicitamente, implicitamente, dettando condizioni programmatiche non accettabili; ma è una speranza assai tenue alla luce delle chiare parole di Mattarella, per cui il perimetro della maggioranza pro-Draghi debba essere esteso secondo la regola di chi ci sta, senza alcuna esclusione motivata da incompatibilità ideologiche, contrapposizioni programmatiche, frizioni caratteriali, così da rendere politicamente e personalmente neutra la partecipazione.

Il che, però, ha una ricaduta importante con riguardo all’identità delle forze in campo, di cui si sono servite per caratterizzarsi, sia in senso positivo, per quel che sono, sia in senso negativo, per quel che non sono vis-à-vis di altre: sinistra/destra, conservatori/progressisti, democratici/populisti, sovranisti/europeisti. A soffrirne è soprattutto la sinistra, che ha praticato in maniera esistenziale la propria identità, tramite una costante accentuazione del suo essere più che diversa del tutto contrapposta, con una caratterizzazione auto-referenziale elevata all’ennesima potenza, la sola forza pienamente legittimata in forza della costituzione italiana e in vista dell’integrazione europea.

Qui sta il tormentone di Pd e Leu, che, dopo aver messo sul banco degli imputati Matteo Renzi, imbrattandone la figura umana ancor prima che politica, hanno finito per trovarsi avvolti in una contraddizione. Se è vero che il senatore di Rignano ha fatto cadere Conte, è anche vero che ha propiziato l’ingresso in campo di Draghi, che certo tiene perfettamente il confronto col suo predecessore proprio da un punto di vista europeo. Dal male sarebbe nato il bene, ma non per un caso fortuito che avrebbe rimediato il colpaccio di un narciso esibizionista del tutto inaffidabile, come pur si vuol far credere, ma per un calcolo preciso di Renzi: certo che Mattarella non avrebbe sciolto il Parlamento, aveva previsto la ricaduta su un governo del presidente, che poteva avere come nome più probabile proprio quello di Draghi.

La guerriglia coltivata da Italia Viva riguardava proprio Conte, così come l’aveva definito Zingaretti, cioè il punto di equilibrio più avanzato fra Pd/Leu e 5 Stelle, in vista di una alleanza strutturale considerata elettoralmente competitiva, se pur tale da far ingoiare alla sinistra storica qualsiasi dissonanza programmatica. Il che era esattamente quel che non voleva Renzi, cui questa alleanza strutturale toglieva qualsiasi area di manovra, costringendolo a farne parte in maniera residuale, con un rafforzamento proprio dell’attuale segretario del Pd, rispetto alle due grosse partite in calendario, la destinazione e gestione del Recovery Fund, non che la elezione del successore di Mattarella.

Ora, però, ad essere inquadrato nel bersaglio del duo Pd/Leu è Matteo Salvini, di cui si è creduto che si chiamasse fuori della maggioranza, cosa che non ha fatto da buon tattico qual è, certo per intercettare il vento del nord, ma anche per recuperare un ruolo centrale, liberandosi del ritratto dell’uomo nero costruitogli attorno, da quando ha portato la Lega a essere costantemente il partito più premiato nei sondaggi. Di fronte alla sua apertura di credito all’ex presidente della Banca centrale europea, più ampia e incondizionata di quella fatta da qualsiasi altra forza politica, la sinistra, che si era illusa che il buon Salvini se ne stesse per conto suo, ha speso un crescendo di argomentazioni negative circa la sua conversione improvvisa a europeista e atlantico: una conversione meramente tattica, destinata a venir meno a fronte della posizione di Draghi emersa nelle consultazioni, con riguardo alla politica fiscale (no alla flat tax), emigratoria (no ai porti chiusi), comunitaria (no alla regola dell’unanimità, sì cessione alla Ue di porzioni di sovranità, sì affermazione dello stato di diritto), estera (no alla Russia di Putin, sì agli Usa di Biden); e, comunque, una conversione avvenuta sulle tesi e priorità del Pd/Leu.

I 5 Stelle condividono questo giudizio su Salvini, ma in fondo con la Lega ci hanno fatto un governo, col raggiungimento di alcuni obiettivi che continuano a difendere ancor oggi; né, d’altronde, hanno digerito del tutto le infamanti accuse rivolte loro dalla stessa sinistra, per essere antiparlamentaristi, populisti, sovranisti, più o meno lo stesso formulario adottato nei confronti dell’uomo del Papeete. Ma il loro bersaglio grosso è Berlusconi, quello riabilitato dal Pd/Leu come un potenziale coinquilino della “maggioranza Ursula”, un uomo a loro avviso macchiato indelebilmente da un lungo elenco di inchieste penali, a tutt’oggi non esaurite, sì da essere improponibile alla luce di un giustizialismo rimasto inattaccabile pur alla luce dello scandalo Palamara. Da questo scandalo è emerso il vero criterio di selezione delle nomine alle più importanti cariche giudiziarie, specie di quelle relative alle maggiori procure, cioè un continuo mercato al ribasso fra i vertici delle correnti seduti nel Csm; ma, soprattutto, il chiaro accanimento ad personam, ieri Berlusconi, oggi Salvini, per un pregiudizio politico, sì da integrare veri e propri golpe giudiziari.

Dietro a questo giustizialismo di ritorno però, appare del tutto evidente un preciso calcolo, cioè quello di vedere in Forza Italia una forza di centro, europeista e moderata, capace sia di aggregare l’attuale frammentazione del cosiddetto “centro”, venendo a costituire qualcosa appetibile dalla stessa sinistra, convinta sostenitrice della maggioranza Ursula, sia di legittimare la destra.

Riesce tentante partecipare al gioco delle previsioni, una volta che la consultazione sulla piattaforma Rousseau ha dato via libera al governo, se pur poco prima che Draghi riveli pubblicamente l’arcano. Quanto alla composizione della squadra di governo, la regola condivisa dai media è che essa sarà tanto meno politica, cioè partitica, quanto più larga risulta la maggioranza, sì da rendere probabile la chiamata sia di autorevoli personalità della società civile, cui non basta avere una specifica competenza, ma necessita la capacità e l’esperienza necessarie per metterla in pratica; sia di rappresentanti dei partiti, non i leader, ma comunque personaggi identitari, se possibile già rodati in precedenti esperienze di governo (i capi delegazione del Conte bis, più le new entry?). Questi ultimi sono necessari per mantenere un collegamento col Parlamento, dove dovranno passare le riforme programmate da Draghi, con il loro complesso itinerario attraverso le commissioni competenti e le aule, che non occorre ricordarlo richiedono un comportamento conforme di Camera e Senato. Può ben essere che Draghi non faccia più ricorso a decreti del Presidente del Consiglio che non siano basati su provvedimenti legislativi sufficientemente dettagliati per legittimare i limiti apposti all’esercizio delle libertà fondamentali; e che ricorra a decreti-legge per le emergenze e a leggi delega per le riforme più impegnative, strumenti costituzionali corretti, per rivendicare al potere esecutivo una area di manovra legislativa.

Circa i programmi occorre tener presente sia la triplice situazione emergenziale – sanitaria, economica, sociale – sia la prospettiva di durata del Governo Draghi, compresa fra uno e due anni. Il che richiede in primis misure specifiche di pronta esecuzione: la messa a punto di un piano vaccinale e di contenimento del virus, che sconti il mea culpa recitato dalla mitica Ursula circa il ritardo nella fornitura delle dosi; la predisposizione del complesso di progetti relativi al Recovery Fund, completo di tutte le riforme amministrative e giudiziarie necessarie per garantirne l’attuazione;  la revisione del sistema di ammortizzatori sociali che accompagni il superamento selettivo del blocco dei licenziamenti.

Le grandi riforme, dal fisco e alla giustizia civile, saranno di scuro più faticose e più lente, probabilmente consegnate ad altrettante leggi delega, la cui decretazione potrebbe caratterizzare il 2022. Mentre non credo proprio che Draghi si faccia carico della legge elettorale o di qualche revisione costituzionale, tipo quelle relative alla fiducia costruttiva e all’autonomia regionale, per il la loro natura ontologicamente divisiva e per la lunghezza della procedura richiesta; ma neppure di alcune riforme incandescenti come quelle relative alla elezione del Csm e alla giustizia penale. Questo non esclude affatto che il Parlamento prenda l’iniziativa, facendo allora emergere con forza le contrapposizioni esistenti su tali materie, senza di per sé mettere a rischio la esistenza del governo, ma certo rendendone più faticosa e lenta la navigazione.

Si batte molto da sinistra sull’europeismo e atlantismo del nostro Draghi. Nessun dubbio sull’europeismo, quale testimoniato dal suo passato, tale da conferirgli maggior credito e potere negoziale in quel di Bruxelles, ma non di farne di per sé un protagonista determinante di un processo di integrazione – che ci si aspetta in termini di innovazioni istituzionali, riassumibili nei termini di una integrazione federale tramite la cessione di porzioni  di sovranità – che comporterebbe la messa in discussione dell’attuale equilibrio europeo, dove il cosiddetto “sovranismo” è largamente di casa. Neppure nessun dubbio sull’atlantismo, tornato di moda dopo l’avvento di un personaggio da noi mitizzato al pari di Draghi, Biden, ma questo non corregge lo spostamento della partita dall’Atlantico al Pacifico, con una sostanziale conferma della politica di Trump contro quella Cina che la nostra Europa corteggia. It’s the economy, stupid.

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