Un perfetto esempio di come funziona la macchina della disinformazione russa
Adesso si chiamano, con termine francamente abusato, bufale, ma le notizie false, fabbricate e diffuse ad arte da potenze estere per confondere e indirizzare l’opinione pubblica nei Paesi ostili verso il proprio interesse, non sono certo una novità. Anzi, sono state a lungo una delle armi di elezione dell’Unione Sovietica, che ha investito somme ingenti non solo nella propaganda, ma anche in campagne di disinformazione, molto prima dei bot su Twitter. I tempi sono cambiati, ma le tecniche sono rimaste essenzialmente le stesse. L’elenco degli esempi sarebbe purtroppo lungo, ma forse vale la pena di conoscere più in dettaglio uno degli ultimi —in ordine di tempo— nonché uno di quelli che hanno avuto effetti più duraturi e provocato danni maggiori: la campagna di disinformazione sull’origine dell’AIDS.
Per comprenderne la portata, dobbiamo sforzarci di tornare con la mente agli Anni ’80: questa nuova, strana malattia comparsa all’inizio del decennio era rapidamente divenuta fonte di preoccupazione, se non di terrore, in gran parte del mondo. A partire dai primi casi segnalati a New York nel 1981, e poi con forza alle prime morti di personaggi celebri come l’attore americano Rock Hudson e Lord Nicholas Eden, politico inglese membro dei governi Thatcher, nel 1985, il panico si diffuse nel mondo occidentale, causato da questo morbo che si diffondeva silenziosamente —e quindi misteriosamente. Legato inizialmente agli ambienti omosessuali americani, fu accompagnato da subito da un forte stigma sociale, fornendo il terreno perfetto per il proliferare di teorie complottistiche di varia natura, dalla punizione divina alla bioingegneria.
In effetti, già nel 1983 due team separati di scienziati, uno guidato dall’americano Robert Gallo e l’altro dal francese Luc Montagnier, avevano isolato un agente patogeno e lo avevano proposto come causa biologica della malattia. Tuttavia, sorsero ben presto dispute tra i due, per ragioni metodologiche e legate alla effettiva complessità del virus e delle sue varianti, tanto che fino al 1986 si pensò che ne esistessero due completamente diversi, denominati HTLV-III e LAV. Alla fine, fu accertato che il virus era uno solo, e fu denominato HIV, ma ormai era tardi, dal punto di vista comunicativo, perché l’incertezza e perfino la litigiosità palesata dagli scienziati aveva minato la loro credibilità presso una buona fetta dell’opinione pubblica.
Fu esattamente su questo terreno fertile, che i servizî segreti dei Paesi del Patto di Varsavia pensarono di poter seminare una pianta velenosa per l’Occidente. Oggi possiamo ricostruire la storia solo parzialmente, attraverso le dichiarazioni rilasciate nel 1992 dal direttore della nuova intelligence russa Jevgenij Primakov e da cablogrammi scambiati con gli 007 bulgari: manca molta della documentazione della Stasi, distrutta prima della riunificazione, ma ciò che sappiamo basta a farci capire come siano andate le cose. Nel 1985, la Guerra Fredda sembrava aver subito un inasprimento, specialmente in Germania, e il KGB era all’attenta ricerca di un modo per diffondere sentimenti antiamericani in Europa e nel mondo. Serviva un’idea semplice, che chiunque potesse comprendere, ma dalla potenza devastante: l’AIDS era in realtà stato creato dalla CIA nel corso di esperimenti per la creazione di armi biologiche. L’operazione ricevette —sembra— l’iniziale nome in codice “Denver”, prima di essere ribattezzata con il ben più entusiasmante “INFEKTION”, rigorosamente tutto maiuscolo.
Estremamente interessante è il meccanismo con il quale fu costruita una campagna di portata globale attorno a questo semplice e totalmente inventato concetto. Non sarebbero stati organi ufficiali dei Paesi comunisti a diffondere le prime voci, e neppure testate formalmente indipendenti. La cosa doveva apparire come il frutto di una “fuga di notizie” o della sagacia investigativa di qualche “giornalista d’inchiesta” indipendente, doveva essere riportata da giornali di nazioni estere, possibilmente neutrali o addirittura occidentali. Alcune testate indiane, poi altre in Ghana, fecero uscire la notizia, quasi in sordina, senza alzare troppa polvere. Si trattava ovviamente di entità sovvenzionate segretamente da Mosca, che svolsero il loro compito alla perfezione.
A quel punto, adesso che qualche “indipendente” aveva lanciato per primo la notizia, questa poteva essere ripresa e rilanciata: per prima ci pensò la Literaturnaja Gazeta, seguita poi da altre testate russe e della DDR, che orchestrarono la faccenda in modo che sembrasse un caso di tentato insabbiamento da parte dei media occidentali, che mancavano in malafede di coprirla, portato alla luce da coraggiosi giornalisti di controinformazione —come diremmo nel 2022. Diventava così un dovere per i mezzi di stampa del blocco comunista dare voce a queste teorie, avallandole, conferendo loro autorevolezza e diffondendole. Si chiama “circular reporting”, ed è un meccanismo pressoché infallibile, che permette di fabbricare una notizia completamente falsa, farla diffondere da qualcun altro e poi confermarla e farla confermare da altri ancora.
A questo punto, mancava solo un parere scientifico che conferisse all’intera operazione tutti i crismi dell’attendibilità e permettesse di usarla apertamente come arma all’interno dell’Occidente —e contro di esso. Di tale parte dell’operazione siamo quasi certi che si occupò la Stasi, in particolare la decima divisione della HVA (Hauptverwaltung Aufklärung, i servizî di spionaggio), come confermato dalla documentazione conservata dalla loro controparte bulgara. A fine estate del 1986, un noto scienziato tedesco orientale, il biologo Jakob Segal, firmò, insieme alla moglie e collega Lilli, uno studio: “AIDS: la sua natura e le sue origini”. In esso, i due scienziati ipotizzavano, facendo sfoggio di una notevole capacità retorica per aggirare quanto possibile affermazioni perentorie o assolute, che la malattia fosse in realtà causata da un virus creato in laboratorio a partire da due retrovirus esistenti in natura e lontanamente imparentati tra loro (VISNA e HTLV-1). Certo, ogni ipotesi era basata puramente su assunzioni ed estrapolazioni, e non su alcuna base organica o scientifica, ma Segal argomentava con vigore e con toni più da pamphlet che da paper accademico, sostenendo che “ovviamente” gli unici interessati a fare qualcosa del genere fossero “i militari americani”, e che già nel 1977 era stato creato dal Pentagono “un laboratorio di massima sicurezza” allo scopo, in cui il virus era stato creato. Segal aveva una spiegazione “facile da capire” anche per la modalità di fuga del virus dal laboratorio stesso: “tutti sanno” —sì, usò questa formula ben poco scientifica: tutti sanno, proprio come nella bellissima canzone di Leonard Cohen (secondo molti ricca di riferimenti all’AIDS), “tutti sanno che in America l’esercito usa i carcerati per gli esperimenti, promettendo loro la libertà se sopravvivono”.
Possiamo certamente renderci conto del livello di serietà di una pubblicazione “scientifica” del genere. Eppure il suo successo fu enorme. Ora, i Segal hanno sempre negato di essere stati alle dirette dipendenze della Stasi, ma lui era un militante comunista tedesco fuggito in URSS negli Anni ’30 e tornato a Berlino Est nel ’53 per lavorare e insegnare nell’ambito del sistema accademico controllato dal partito, e le carte che abbiamo mostrano come sia lecito pensare che la HVA gli abbia almeno suggerito parte del contenuto della sua ricerca. Quel che è certo, è che ne fece un uso immediato e potente, diffondendola nel modo più efficace. Ne preparò una versione ridotta, che intitolò furbescamente “AIDS: un male fatto in casa dagli USA, NON venuto dall’AFRICA”, e la distribuì a ogni delegato che prese parte alla grande conferenza dei Paesi non allineati che si svolse tra agosto e settembre di quell’anno a Harare, Zimbabwe. La reazione fu immediata, soprattutto nelle nazioni africane, ansiose di togliersi di dosso la “colpa” percepita di essere la supposta origine del virus —che, come sappiamo oggi, avrebbe effettuato il salto di specie dai primati in qualche luogo dell’Africa equatoriale all’inizio del XX secolo.
La macchina di propaganda si mosse in modo rapido e diffuso: nel 1987, i contenuti del Rapporto Segal e le tesi sull’origine artificiale dell’AIDS apparvero ben 40 volte sui media sovietici, e furono rilanciate in oltre 80 Paesi e in almeno 30 lingue, sfruttando la fitta rete di testate orientate a sinistra e più o meno direttamente finanziate da Mosca, dalla Nuova Zelanda alla Nigeria, dalla Bolivia al Pakistan, dall’Indonesia a Malta, da Grenada alle Filippine. A quel punto, poco importava che la comunità scientifica stesse raggiungendo un consenso sempre più ampio sulla natura del virus (HIV) e sulla malattia da esso causata (AIDS): la storia diffusa da KGB e Stasi funzionava, perché rispondeva ai dubbi che la gente comune si era posta in quegli anni di paura. Funzionava, perché proponeva una visione semplice e “contraria al sistema”, perché solleticava l’istinto del grande pubblico per la ricerca di complotti. Il problema è che il complotto c’era: ma era quello di chi si poneva come “debunkatore”, diremmo oggi, non di chi forniva la “versione ufficiale”. Soprattutto, una storia affascinante, da romanzo di Stephen King.
In pratica, gli americani avevano creato il virus responsabile dell’AIDS nel loro laboratorio di Fort Detrick, Maryland: da qui, il virus si era diffuso a New York, e il Pentagono non era più riuscito a nascondere il tutto. Trovatisi improvvisamente in difficoltà, avevano cercato proditoriamente di scaricare il barile sui soliti gruppi emarginati. In un primo tempo, avevano addossato la colpa alla comunità omosessuale, poi si erano rivolti verso quella nera, spingendo gli scienziati a proporre fantasiose teorie su un’origine africana del virus —perché si sa, l’Africa è sporca e vi prolifera ogni tipo di malattia. In questo loro goffo tentativo di lavarsi le mani dalle conseguenze delle loro azioni illecite, avevano messo in tale difficoltà la comunità scientifica, che questa si divideva in un imbarazzante spettacolo di reciproche smentite e accuse.
Ma per quanto riguarda la diffusione del virus nel continente africano stesso, sempre più evidente? C’era una risposta, facile e avvincente, a tutto: Aleksandr Žukov, corrispondente di Radio Mosca, rivelò di aver scoperto “prove” del fatto che con lo stesso virus si era lavorato nei primi Anni ’70 anche in un laboratorio gestito dal Pentagono con personale tedesco-occidentale nello Zaire. In effetti, come rilanciato dalle radio di mezzo mondo, quella che era stata fatta passare come la sperimentazione di un vaccino per il colera aveva invece visto l’inoculazione del virus a migliaia di africani, nel tentativo di far credere che la malattia avesse avuto origine nel Paese di Mobutu. Stesso copione, venne fuori, era stato seguito in occasione di una campagna di contrasto alla malaria condotta in Pakistan nel 1962.
Come vedete, la storia non era certo assemblata con precisione chirurgica: il virus sarebbe stato creato in Maryland nel 1977, ma nello Zaire era disponibile un lustro prima, e addirittura era stato diffuso in Asia altri quindici anni prima. Ovviamente, nulla di tutto ciò era vero. Già nel 1987, il dr. Meinrad Koch, uno dei massimi esperti tedesco-occidentali in materia, definì il lavoro di Segal “un totale nonsense, un buglione velenoso di politica e pseudoscienza”, e perfino i vertici dell’Accademia Sovietica di Scienze Mediche ne presero le distanze e sostennero la tesi dell’origine naturale. Figurarsi che Segal aveva sostenuto che l’epidemia era partita da New York perché era la città più vicina a Fort Detrick, ma basta aprire un qualsiasi atlante per vedere come ben più vicine siano Washington, Baltimora, Annapolis e Philadelphia —tanto per dire.
Eppure ha funzionato, per i motivi che ho cercato di elencare brevemente poche righe sopra. Essenzialmente, ha funzionato perché, come abbiamo potuto apprendere nel corso della recente pandemia di Covid-19, i tempi e le dinamiche della comunità scientifica non sempre si sposano bene con quelli della comunicazione, ed è possibile che in questo processo vengano a crearsi dei vuoti che alimentano la paura e l’incertezza in larghe fasce della popolazione. E proprio in queste fasce si possono inserire attori ostili, che mirano ad abbattere ancora di più la fiducia e a operare fratture sempre più nette, non curanti delle possibili conseguenze, anche per loro stessi. Sì, perché, in effetti, la Russia e gran parte dei Paesi che furono parte dell’Unione Sovietica si trovano a dover gestire oggi una delle situazioni più difficili per quanto riguarda la diffusione dell’AIDS, a causa del persistere della sfiducia nei confronti delle “spiegazioni ufficiali” —atteggiamento ripetutosi anche nel caso del Covid.
Nel complesso, i danni fatti dall’Operazione Infektion sono incalcolabili, dal momento che la stessa ha contribuito in modo assolutamente non secondario a far sì che l’epidemia di AIDS assumesse proporzioni catastrofiche nei Paesi del Terzo Mondo. Quei primi anni erano fondamentali per porre le basi di una gestione scientifica del fenomeno, e i Paesi che già per condizioni socioeconomiche si trovavano in una situazione più difficile subirono in pieno la propaganda sovietica, che avrebbe minato in modo spesso non riparabile ogni fiducia nella comunità scientifica, e spingendo anzi le popolazioni a vedere con sospetto ogni iniziativa medica volta ad aiutarle.
In Africa, la situazione ha assunto dimensioni di gravità eccezionale: qui, la disinformazione di origine sovietica è stata declinata secondo caratteristiche peculiari, già dagli inizi. Ad esempio, una delle credenze più diffuse sul continente è quella che i preservativi non solo non forniscono alcuna protezione, ma siano spesso il motivo di contagio: la sua invenzione risale esattamente al periodo dell’Operazione, e la sua diffusione fu operata in origine dalle testate clandestine filosovietiche sudafricane, impegnate a contrastare in ogni modo la politica di apartheid del paese e le sue posizioni filoccidentali. In tutta l’Africa subsahariana, la disinformazione creata a tavolino dai servizi segreti sovietici e tedesco-orientali si è andata a mescolare a una lunga serie di superstizioni locali e a una già presente diffidenza nei confronti della medicina occidentale, con le conseguenze drammatiche i cui numeri ammontano a milioni di morti e ad altrettanti di sieropositivi.
A questo proposito, mi limiterò a ricordare la figura di Jacob Zuma, presidente del Sudafrica tra il 2009 e 2018, attualmente incriminato per molti reati e protagonista di un reiterato negazionismo sull’esistenza dell’AIDS. Zuma ha sempre sostenuto che la malattia sia in realtà frutto di una qualche forma di stregoneria, quando non un’invenzione tout court delle grandi aziende farmaceutiche occidentali, ha costantemente evitato di impiegare i fondi internazionali concessi al Sudafrica per affrontare il dramma dei milioni di sieropositivi e degli orfani, e si è perfino in più occasioni rifiutato di condannare la terribile credenza che si possa guarire dalla malattia stuprando una bambina vergine. Bene, Zuma è stato per anni membro del Partito Comunista Sudafricano, e ne sedeva nel Politburo esattamente nel periodo in cui il partito si adoperava per diffondere le tesi sovietiche circa le origini del virus e la natura della malattia, con il futuro presidente che giocò un ruolo di primo piano.
Come vedete, la potenza di un’idea è enorme e difficilmente controllabile, e la poco nota vicenda dell’Operazione INFEKTION dovrebbe a mio modo di vedere farci capire come si debba sempre mantenere alta la soglia di attenzione nei confronti di questo tipo di azioni. In effetti, abbiamo visto come sia fin troppo facile per una potenza ostile fabbricare letteralmente dal nulla notizie completamente false ma dalla forza dirompente se diffuse in modo coscientemente studiato. E le conseguenze possono essere imprevedibili, molto gravi e durature. Magari anche puntando sulla maggiore trasparenza possibile nella comunicazione in situazioni di emergenza —cosa che anche in tempi recenti non sempre è stata fatta— di modo da non lasciare spazio al proliferare di un substrato che rappresenta il perfetto terreno di coltura per questo genere di disinformazione. Perché vediamo dalla storia e viviamo nella quotidianità come la democrazia abbia molti nemici, e come essi siano sempre molto attivi nel ricercarne punti deboli dove colpire.