Nel maggio del 1969 l’allora governatore della California, Ronald Reagan, impose l’utilizzo della forza pubblica per porre fine all’occupazione e ai disordini nell’Università di Berkeley che duravano da oramai parecchi anni e segnatamente dal 1964. L’episodio è narrato anche nella biografia dell’ex presidente degli Stati Uniti scritta di recente da Gennaio Sangiuliano di cui Atlantico Quotidiano si è peraltro già occupato.
Devo dire che fra tutte le vicende pubbliche e private di Reagan che Sangiuliano narra ripercorrendo la storia degli Stati Uniti del ventesimo secolo, quella di Berkeley mi è sembrata particolarmente significativa e degna di attenzione. L’episodio restituisce al lettore la vera dimensione del conservatorismo liberale, di cui l’ex attore di Hollywood fu illustre rappresentante, attraverso quello che si potrebbe definire, forse, un episodio minore della straordinaria carriera di Ronny.
A Berkeley, secondo una certa vulgata, Ronald Reagan avrebbe stroncato con la violenza e l’intervento della Guardia Nazionale la manifestazione del disagio e della creatività del movimento studentesco che non poteva di certo essere affrontata, secondo i suoi detrattori, con il metodo “legge e ordine”.
A ripercorrere con attenzione la ricostruzione di Sangiuliano e a verificare una discreta mole di fonti si scopre, però, che il governatore della California ritenne necessario intervenire con fermezza per ripristinare la tutela delle proprietà pubblica e dei diritti di migliaia di studenti. Ciò che Reagan non poté più tollerare fu l’uso della violenza che i manifestanti utilizzarono sia per impedire a chi non condivideva la loro battaglia di esercitare le libertà fondamentali e di continuare a usufruire della didattica e delle lezioni universitarie, sia per occupare abusivamente proprietà destinate a ben altre finalità collettive.
Dietro le posizioni nette del futuro presidente degli Stati Uniti, riassumibili nelle esternazioni “state alle regole o andatevene” oppure “bisogna fare piazza pulita del casino di Berkeley”, non vi era la volontà di contrapporre un’ideologia contraria a quella espressa dagli occupanti, né il desiderio di impedire l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero. Reagan intervenne perché comprese che un gruppo organizzato pretendeva di avere la meglio sul resto della popolazione studentesca attraverso gli strumenti della intimidazione, della minaccia e della violenza. Fu impedito a chi dissentiva dall’occupazione di riprendere a studiare e di esercitare diritti e libertà fondamentali. E che non si tratta di un’interpretazione benevole di un filo conservatore reaganiano è testimoniato dalle stesse parole dell’allora governatore della California: “Quelli che vogliono ricevere un’istruzione, quelli che vogliono insegnare, devono essere protetti con la punta delle baionette, se necessario”.
Qualche tempo prima, nel corso di un’audizione in qualità di capo del sindacato degli attori di Hollywood davanti alla Commissione che indagava sulle infiltrazioni comuniste, Reagan ebbe a dare testimonianza del suo sincero credo nella democrazia pluralista e liberale; una fede che gli impediva di tentare di sconfiggere gli avversari comunisti con la menzogna e la persecuzione ingiustificata. A guidare il governatore della California nello sgombro di Berkeley fu dunque la cifra del vero conservatorismo liberale: la necessità di schierare la forza pubblica e l’autorità dello Stato dalla parte dei diritti individuali di ogni singolo cittadino, diritti che non devono soccombere davanti alla prepotenza e alla violenza di gruppi organizzati, minoritari o maggioritari, di qualsiasi appartenenza.
Circa venti anni più tardi Margaret Thatcher diede un altro fulgido esempio di cosa volesse dire ispirarsi al conservatorismo liberale. Le cariche della polizia e i violenti scontri che segnarono le proteste del sindacato dei minatori, fra il 1984 e il 1985, non furono dettati dalla volontà del premier britannico di opporsi allo sciopero o al sacrosanto diritto dei lavoratori di manifestare la loro contrarietà a una ristrutturazione industriale che non condividevano. Allo stesso modo di quanto aveva già fatto Reagan, la Lady di ferro intervenne per impedire ciò che rappresentava una palese violenza su beni pubblici e privati e sulle libertà individuali di migliaia di lavoratori. Gli iscritti al sindacato dei minatori, infatti, non si limitarono a protestare, ma, da un lato pretendevano di occupare pozzi di carbone e di sottrarne la disponibilità al legittimo proprietario, dall’altro, attraverso la tattica del picchettaggio, esercitarono numerosissime violenze fisiche e altrettante minacce nei confronti di coloro che, non condividendo la loro presa di posizione, chiedevano di potere continuare a lavorare.
A Berkeley e davanti ai pozzi minerari inglesi, Ronald Reagan e Margaret Thatcher si batterono per ristabilire lo stato di diritto e la tutela delle libertà fondamentali che troppo spesso in quegli anni, complice l’indulgenza verso un certo disagio sociale, il sindacato e i movimenti studenteschi calpestavano violentemente con eccessiva disinvoltura. Si batterono per riaffermare l’autentica dimensione della liberal democrazia che non è la sopraffazione di alcuni sugli altri.
La questione cruciale non era impedire gli scioperi o le manifestazioni di protesta; atteggiamento che i due leader non assunsero mai. Il punto nevralgico dell’intera faccenda era lasciare liberi coloro che non desideravano scioperare o aderire alle occupazioni di esercitare i loro diritti e le loro libertà. Sia il sindacato dei minatori che le organizzazioni studentesche pretesero di ottenere con la violenza e le intimidazioni ciò che il consenso spontaneo attorno a certe idee non avrebbe loro assicurato. E lo Stato fece ciò che ogni cittadino libero si aspetta in un ordinamento che tutela i diritti individuali dalla violenza dei gruppi organizzati.
Ronald Reagan e Margaret Thatcher non furono due fanatici irretiti nelle idee del conservatorismo liberale. Più volte vennero a patti con le loro convinzioni e con le promesse elettorali. Ma nei momenti cruciali, quando in ballo vi furono la vita, le libertà individuali, la difesa dei valori occidentali e, soprattutto, la necessità di contrastare con fermezza ogni genere di minaccia o di ricatto, non ebbero mai esitazioni, si schierano dalla parte giusta e non accettarono compromessi.
Accadde quando il governo argentino pensò di potere invadere impunemente le isole Falkland ufficialmente sotto la sovranità britannica e quando i terroristi dell’IRA credettero di potere ricattare con lo sciopero della fame il Governo di Sua Maestà. Accadde quando più di 10 mila dipendenti del governo federale americano addetti ai sistemi di controllo di volo pensarono di violare impunemente la legge che vietava lo sciopero nei servizi pubblici essenziali senza preavviso e quando i sovietici credettero di vincere la corsa agli armamenti nucleari per sottomettere il mondo libero.
Pagine di storia, quelle scritte da Reagan e Thatcher, che appaiono oggi gloriose e allo stesso tempo troppo lontane se confrontate con l’indegno spettacolo al quale abbiamo assistito fino a qualche mese addietro anche negli stessi Stati Uniti.
Sotto la bandiera di movimenti come Black Lives Matter e Antifa, solo per fare degli esempi, sono state consumate numerose violenze e altrettante occupazioni di interi quartieri all’interno dei quali la sovranità dello Stato è stata letteralmente annichilita. Danni per miliardi di dollari alla proprietà privata e ai beni pubblici sono stati consentiti dall’ignavia dei governatori che avrebbero dovuto intervenire per ristabilire quell’ordine liberale senza il quale nessuna sacrosanta battaglia antirazzista può trovare ascolto e legittimazione. Ancora una volta è tornata di moda l’idea di tollerare la violenza a cose e persone come strumento legittimo di manifestazione di un disagio sociale la cui repressione, perché sia ricondotto entro gli argini della liberal democrazia, rappresenterebbe, a quanto pare, un crimine invece che un’opera meritoria di salvaguardia dell’ordine civile.
Ancora una volta, in verità, abbiamo sentito il bisogno dell’intransigenza liberale di Ronald Reagan e Margaret Thatcher; l’indisponibilità a scendere a patti con la violenza e la minaccia perché siano sempre tutelati diritti e delle libertà individuali.