In questi quattro anni l’attacco a Trump è stato frontale, con a far da avanguardia New York Times e Cnn. Sarebbe dovuto bastare secondo la versione dominante per creare una “valanga blu”. I sondaggi vi ci sono adeguati, con l’inconscia ambizione di realizzare una profezia destinata a realizzarsi: è stata la realtà presupposta non la tecnica, a tradire la variegata tribù dei sondaggisti… Eppure, alla fine, c’è qualcosa che non torna: la preoccupazione per l’economia e la sempre sottovalutata “anima americana”. La scommessa tattica di Biden è parzialmente vinta, è probabile che se pur alla fine di un lungo contenzioso legale arriverà Casa Bianca, ma già come anatra zoppa
Seguendo la campagna mediatica scatenata dalla “intellighenzia nostrana”, con una partecipazione corale di uomini di spettacolo, giornalisti, scrittori, artisti contro Trump, mi sono ricordato di aver sentito la stessa musica alla elezione e, se pur attenuata, alla rielezione di Reagan, che oggi si può ben considerare come uno dei più grandi e amati presidenti americani del secolo scorso. Allora come ora la prevenzione era data dall’essere Repubblicano, quindi di destra, cosa che come si sa significa di una destra cattiva, perché non c’è mai una destra che vada bene alla sinistra, se non quella condannata ad una opposizione malleabile. Fin qui niente di particolare, ma la nota comune è data dalla volontà di infamare in qualsiasi maniera la persona in oggetto: così Reagan era un cowboy ignorante e un attore fallito, Trump un evasore fiscale ma soprattutto uno squilibrato mentale. Niente più niente meno di due pifferai magici destinati a portare gli Usa alla rovina totale. Per Reagan si può rinviare al baccano di quel tempo, per Trump si può rivedere la ricostruzione fattane su La7 da Purgatori, una vera e propria cartella clinica psichiatrica, senza neppure una parola spesa per offrire una panoramica della sua presidenza, che qualcosina di valido l’ha pure prodotta: dal contrasto della Cina, con l’Europa chiusa in un silenzio ossequioso, tanto da censurare la stessa origine del virus, fino agli Accordi di Abramo, anche qui coll’Europa bloccata da un complesso paralizzante nei confronti della popolazione palestinese.
Non è tutta farina del nostro sacco, l’abbiamo importata dagli stessi Usa, dove l’attacco a Trump è stato frontale, con a far da avanguardia il New York Times e la Cnn: come uomo è stato infangato quotidianamente; corrotto e corruttore, evasore fiscale, spregiudicato donnaiolo; come presidente è stato contestato duramente, sia per la sua elezione, sia per la sua politica. Sarebbe stato eletto con l’aiuto di Putin, autore di una campagna mediatica ai danni della Clinton, tanto da meritarsi un impeachment, promosso dai Democratici nonostante la quasi assoluta certezza di non riuscire a portarlo in porto in Senato; avrebbe governato di male in peggio, con una gestione fallimentare della epidemia e con una campagna law and order destinata ad infiammare la protesta afroamericana.
Si è volutamente ignorato che gli Usa sono un Paese federale, dove il potere dei governatori, delle assemblee, delle Corti è tutt’altra cosa rispetto a quelli dei nostri presidenti e consigli regionali, là i governatori possono disporre della guardia nazionale statale e i sindaci della polizia locale. Le critiche circa l’assenza di misure restrittive anti-Covid avrebbero dovuto essere estese anche ai governatori e alle assemblee degli States; e le proteste all’insegna di George Floyd matter contro le violenze degli agenti avrebbero dovuto riguardare anzitutto quei sindaci che ne erano responsabili. Non per niente i governatori e i sindaci chiamati in causa erano spesso Democratici.
Tutto questo sarebbe dovuto bastare secondo la versione dominante per creare una “valanga blu”, tale da colorare quasi l’intera carta geografica degli Usa, con una minoranza attestata su posizioni para razziste, in testa i primatisti bianchi, veri eredi dei cappucci bianchi del Klu klux Klan. E i sondaggi vi ci sono adeguati, con l’inconscia ambizione di realizzare una profezia destinata a realizzarsi: è stata la realtà presupposta non la tecnica a tradire la variegata tribù dei sondaggisti, con in numeri tendenzialmente concordanti intorno ad un meno dieci punti a danno di Trump.
Eppure, c’era qualcosa che non tornava, la preoccupazione prioritaria della gente per l’economia, accompagnata da una maggior fiducia per Trump, non per quel che diceva, ma per quel che aveva fatto, assicurando al Paese un periodo di crescita economica ed occupazionale, portando la disoccupazione ai minimi storici. Non solo, c’era una cronica sottovalutazione di quella che si può chiamare l’anima americana, vivere del proprio lavoro, non di un sussidio statale, privilegiare un mondo libero più di uno sicuro, credere che ciascuno individuo è protagonista del proprio futuro.
Qui sta la vera differenza, nella visione del melting pot. Trump porta all’estremo la classica politica repubblicana, non è razzista con riguardo alle persone, ma, se si vuole, con rispetto alle culture, ci deve essere una tendenziale convergenza sui valori, che sono quelli della anima americana. Questa è la via da percorrere per la integrazione delle minoranze etniche, che deve essere di lingua ma anche di storia, la quale non può essere contestata a posteriori, giudicando il passato alla luce di un presente che pure ne è figlio.
Biden cerca di contenere la deriva a sinistra della attuale politica democratica, peraltro condividendone l’ispirazione fondamentale di una convivenza di diverse minoranze, ivi compresa quella bianca anglosassone, destinata a diventare tale per la più bassa fertilità e la costante immigrazione dal Messico; convivenza all’insegna di una reciproca tolleranza di diverse lingue e storie, senza più condivisione dei valori dell’anima tradizionale.
La scommessa strategica di Biden peraltro è andata persa, perché privilegiare una etnia a danno di una altra, significa perdere la fiducia di questa ultima, l’apertura di una cambiale in bianco a favore di quella afro-americana, ha inevitabilmente comportato la presa di distanza da parte dei latinos, come insegna la vicenda della Florida, dato che in assenza di una cultura comune, ogni etnia si chiude su se stessa, contravvenendo alla classica formula di ex pluribus unum, creata con riferimento agli stati federati, ma applicabile anche con riguardo ai valori identitari.
La scommessa tattica di Biden è andata parzialmente vinta, perché è probabile che se pur alla fine di un lungo contenzioso giudiziario, andrà ad abitare alla Casa Bianca, sfrattando l’attuale inquilino divenuto moroso; ma non senza un costo, che non è quello che appare a prima vista, di una divisione radicale fra destra e sinistra, ma di una segmentazione concorrenziale fra componenti, questa volta non per origine nazionale come ai tempi della massiccia emigrazione dall’Europa, oggi tendenzialmente riassorbita, ma per lingue, tradizioni, credenze, sì da costituire altrettante enclaves.
Una scommessa solo parzialmente vinta, condannato com’è Biden ad essere fin dall’inizio del suo mandato una anatra zoppa, il Senato rimasto in mano ai Repubblicani, con al comando un Trump uscito rafforzato rispetto al partito. La minaccia di riconquistare la maggioranza della Corte Suprema, con l’innalzamento del numero dei componenti, tutti rimessi del presidente in carica, è sfumata completamente, sì che l’istituzione più potente del sistema americano resterà per un tempo imprevedibile nelle mani dei conservatori, ma questo è solo un aspetto del difficile cammino del neo-presidente, perché il Senato condiziona ampiamente l’azione presidenziale.