Qualche giorno fa una millennial americana come tante è balzata improvvisamente agli onori della cronaca perché ha testimoniato in favore dell’operato presidenziale di Donald Trump davanti ad una folta platea alla conferenza del mercoledì della Faith and Freedom Coalition, un gruppo cattolico conservatore che ha appoggiato la campagna elettorale di Trump nel 2016. La qual cosa, anche se ai più accorti potrebbe puzzare di messa in scena mediatica e presumibilmente organizzata ad arte, di questi tempi, nel mare politicamente orientato del mainstream, è l’equivalente del farsi cucire addosso la lettera scarlatta o essere bruciata sul rogo di Salem come eretica. “Trump è stato come il buon samaritano, mi ha vista abbandonata sul ciglio della strada e non è passato oltre”, ha detto la donna.
Tutto il battage nasce dall’affermazione televisiva, azzardata e forse un po’ troppo trionfalistica, del democratico Joe Biden che, messianico e reduce da tristi esperienze familiari, ha dichiarato che se verrà eletto troverà la cura per sconfiggere il cancro. Apriti cielo.
La storia è stata per giorni tema di spicco nei telegiornali e sulla stampa, scambi al vetriolo hanno infiammato Twitter, ma qui da noi se ne è parlato poco, anzi per niente, come spesso capita quando si deve parlare di cose buone fatte dall’amministrazione Trump che in qualche modo possano offuscare invece la pluri sponsorizzata ObamaCare.
Beatificazione di The Donald in diretta a parte, Natalie Harp, questo il suo nome, è una bella quarantenne americana, imprenditrice di successo che ha lottato contro una rara forma di cancro alle ossa per buona parte della sua vita e ad aggravare la situazione ci si era messo anche un errore medico che l’aveva ridotta quasi immobile sulla sedia a rotelle. I medici continuavano a ripeterle che non ci fosse alcuna cura conosciuta per la sua malattia e che non le erano rimaste molte opzioni di trattamento. Dopo due cicli di chemioterapia sostenuta da oppiacei, marjuana terapeutica e barbiturici, essendole stata preclusa per via della gravità della sua condizione la possibilità di partecipare a diversi trials clinici, le vie ufficiali della medicina per Natalie avevano fallito.
Immaginate il profondo scoramento di una persona, per di più ancora giovane, gravemente ammalata alla quale viene detto o meglio “consigliato” che potrebbe anche smettere di mangiare e di bere qualora lo volesse e lasciarsi di fatto morire con quel protocollo per malati terminali che va sotto il nome acronimo di VSED, Voluntarily Stopping Eating and Drinking, che tradotto significa interruzione volontaria del bere e del mangiare.
La signora, che come tutti coloro che si aggrappano alla vita ha una tempra non da poco, ha risposto stizzita all’operatore sanitario che lei avrebbe semplicemente voluto stare meglio e non porre fine alla sua vita. E, a sentir lei, sembrerebbe che così sia stato una volta intrapresa una nuova via terapeutica non ancora ufficializzata.
Ciò che ha sostanzialmente migliorato la qualità della vita di Natalie è infatti che grazie ad una normativa fortemente voluta e approvata nel 2018 dal presidente Trump, la National Right to Try Legislation, Natalie ha potuto cercare strade nuove per tentare di curarsi.
La legge sul “diritto a tentare” permette ai malati terminali e a tutti quei malati ai quali è stata riconosciuta una condizione o una malattia che porti inevitabilmente alla morte, una volta che siano state tentate tutte le azioni mediche e le medicine certificate possibili, di avere accesso a farmaci e protocolli che non hanno ancora avuto approvazione dalla onnipotente Food and Drugs Admnistration e che quindi fino a ieri potevano sembrare solamente stravaganti o essere addirittura fuorilegge.
Una specie di avallo legale della possibilità di ricorrere a cure alternative, come potrebbe essere stata la nostra cura Di Bella o come fu la storia dell’olio di Lorenzo o il presunto trattamento Stamina che ogni tanto infiammano il dibattito sulla libertà di cura nel nostro paese. Il nome che è stato dato a questa possibilità “Right to try“, diritto a provare, la dice lunga sullo spirito che muove questa normativa.
Ovviamente i detrattori dipingono l’accaduto e la normativa come una falsa speranza, l’ennesimo tentativo di accrescere il consenso personale al presidente che ha ribattuto, come sempre serafico, che la sinistra radicale offre una visione del socialismo basata su censura, tasse alte e aborti tardivi e che loro, i repubblicani, stanno lottando per il sogno americano e che grazie ai suoi sostenitori gli americani prospereranno.
Ha poi proseguito in un’infilata di questioni sanitarie, dal blocco della sperimentazione sui tessuti fetali agli sforzi contro l’aborto, unendo vita e morte in un discutibile connubio ma, quello che aveva colpito Natalie all’epoca della campagna elettorale, era stata la volontà del candidato Trump di intervenire su un argomento scottante come quello che da lui stesso fu definito “diritto di lottare per la propria vita” e per questo sostiene di essere viva e non più soggetta ad un dolore cronico insopportabile solo grazie al fatto di aver potuto accedere a nuove terapie.
In Italia più o meno negli stessi giorni ha fatto scalpore e suscitato indignazione la condanna da parte del tribunale di Padova dei genitori di Eleonora Bottaro per aver indotto la figlia a rifiutare la chemioterapia e seguire invece le prescrizioni del famoso o famigerato Metodo Hamer. Che però è cosa diversa, perché la ragazza si sarebbe potuta salvare se avesse almeno tentato le cure protocollari.
Il limbo è sempre lì, sempre alla fine della propria vita, dove si può scrivere un testamento biologico sperando che qualcuno lo esegua e il diritto ad una scelta consapevole una volta che si è stati dati per spacciati dalla medicina protocollare.
Forse un intervento in questo senso sarebbe auspicabile anche qui, in quell’Italia dove non è un diritto normato nemmeno l’accesso al coma farmacologico ma una elargizione magnanima del sanitario e dove, per adesso, un diritto a lottare e un “diritto a provare” ancora mancano e non si riesce nemmeno a parlare serenamente di fine vita dignitoso, figuriamoci di eutanasia. Cosa che invece, a quanto pare, sono riusciti a fare egregiamente i cristiani conservatori statunitensi.
Sfortunatamente queste ed altre similari istanze trovano una resistenza invincibile da parte della Conferenza Episcopale e spaccano tutti i fronti governativi e tutte le alleanze, vecchie e nuove. Perché il tema è spinoso ed è oggettivamente difficile conciliare le esigenze private di autodeterminazione con quelle pubbliche di tutela legale e procedurale quando non c’è univoca visione del problema, ad oggi tutto a carico dei singoli individui o quasi, da parte delle varie forze politiche. O non c’è del tutto.
Il leghista Roberto Turri, relatore in Commissione Giustizia della legge sull’eutanasia ha sostenuto giusto un mesetto fa che da parte della Lega di Matteo Salvini non c’è una preclusione particolare sull’argomento, che non significa essere d’accordo ma che il partito cercherà una soluzione quanto più possibile condivisa, laddove allo stesso tempo il senatore Pillon ha tuonato che non è tra le priorità e nemmeno nel contratto di governo con i pentastellati, i quali, dal canto loro, vedono Giulia Sarti come prima firmataria della legge sul suicidio medicalmente assistito e procedure eutanasiche.
E poi ci sono i pro life e, agli antipodi, l’approvazione del Partito democratico sostenuta da Zingaretti in persona. Certo è che questo è un tema che sta a cuore a tutte le famiglie italiane che hanno un malato grave o terminale in casa e potrebbe essere da cavalcare come ha ben fatto Trump in una ipotetica campagna elettorale, dall’orizzonte forse nemmeno tanto lontano. Chi primo ci arriva meglio alloggia.
Possibilmente, suggeriamo, prendendo ad esempio quella determinazione trumpiana al riempimento della lacuna di una necessità oggettiva che ha influenzato nel voto Natalie Harp e i milioni di americani nelle sue stesse condizioni, ma senza le sparate apocalittiche alla Biden – tanto non ne mancheranno altre, da tutte le parti.