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Quella di Renzi è sete di potere e non politica

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Un senatore semplice, niente di più. Dopo il 4 marzo Renzi sembrava essersi convinto. Cinque anni di quiete nel Partito democratico, per lasciare fare agli altri. Ovviamente si è verificato l’esatto contrario, perché l’ex presidente del Consiglio si è puntualmente intromesso in tutte le vicende del Pd. Indimenticabile la sua intervista da Fazio quando ha fatto a pezzi la possibilità di un’alleanza con i 5 Stelle, mentre alcuni sherpa dei due partiti stavano provando ad instaurare un dialogo. Il suo protagonismo, però, è riemerso in tutta la sua forza disgregatrice nelle lotte intestine tra i dem, di cui Renzi è tornato l’assoluto protagonista tanto da aver lasciato trapelare la possibilità di una ricandidatura alla segreteria o di una clamorosa scissione. In quest’ultimo caso saremmo di fronte ad una mossa non dettata da ragioni ideali o programmatiche ma da un ego smisurato. Un egocentrismo senza confini in grado di ignorare il fallimento di un progetto politico e pronto a distruggere tutto ciò che non si vuole sottomettere alla sua sicumera.

L’ultima vittima della furia renziana è il povero Minniti, uomo saggio e politico effettivamente capace che è stato sacrificato da Renzi. Un gesto meschino ma che dice molto del renzismo nella sua fase calante. L’ex ministro degli interni, pur accettando la candidatura, aveva chiesto di non passare come candidato renziano. Bene, questo suo tentativo di smarcarsi dal tramonto del giglio magico sembra non essere piaciuto all’ex premier che ha deciso di silurarlo. Questa scelta è particolarmente nociva per il Pd perché Minniti sarebbe potuto essere il candidato ideale per incalzare Salvini. Le sue politiche sulla sicurezza, il suo pragmatismo e i suoi toni avrebbero potuto arginare la forza dei gialloblu, ridando nuova credibilità ad un Partito democratico ormai fiacco. Renzi non ci ha pensato su due volte e gli ha dato il ben servito.

Ma torniamo al nostro senatore semplice: che senso avrebbe uscire dal Pd ora? Per l’ex premier sarebbe la manovra ideale per farla pagare ai compagni di partito che gli hanno voltato le spalle. Questa potrebbe essere l’occasione, in caso di successo elettorale, per dimostrare la sua bravura, la sua superiorità e il suo appeal da politico di ‘nuovo corso’. Sarebbe il coronamento tragico della favola del rottamatore che a furia di rottamare, rottama anche il partito che lo ha cresciuto e portato alla guida dell’esecutivo. Un parricidio bello e buono.

E che ne rimane dei suoi grandi discorsi, della sua retorica e di tutte le parole spese per l’Italia? Poco o nulla. Perché la scissione, oltre che una rivalsa ai danni del Pd, è utile per sfruttare le logiche del sistema elettorale proporzionale. Con il suo partito Renzi potrebbe avere un numero di parlamentari prezioso per la formazione di futuri esecutivi e così un potere coalittivo non indifferente. Dunque zero interesse per il Paese (a cosa può servire un nuovo partito di centro?) e zero interesse per il Pd. Anzi solo astio nei confronti di un organismo che non si è genuflesso alle sue volontà. Il resto è sete di potere. È il desiderio insaziabile di visibilità e notorietà. Dei riflettori che ormai si sono spenti e illuminano altrove. La politica e i suoi ideali, a cui Renzi ha fatto riferimento a lungo per criticare i cosiddetti populisti, sono un’altra cosa.