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Quelli italiani unici porti sicuri del Mediterraneo centrale? Ecco perché l’ordinanza Vella si basa su una falsa premessa

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Amnesty International ha detto a Carola Rackete che “in Tunisia non ci sono porti sicuri”, lei lo ha detto al magistrato Alessandra Vella e così la Vella non ne ha convalidato l’arresto perché, così si legge nella sua ordinanza, “il descritto segmento finale della condotta dell’indagata costituisce il prescritto esito dell’adempimento del dovere di soccorso il quale, si badi bene, non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro”.

Il comandante Rackete aveva dapprima rifiutato, ritenendolo porto non sicuro, di trasferire i naufraghi a Tripoli, come le aveva raccomandato la Guardia Costiera libica, uno dei quattro centri di coordinamento consultati. Aveva anche escluso di sbarcarli a Malta perché il paese “non ha accettato le previsioni che derivano dalle modifiche introdotte nel 2004 alla SAR, la Convenzione internazionale di Amburgo del 1979 sulla ricerca ed il salvataggio marittimo”. In sostanza, per l’indagata l’unico porto sicuro del Mediterraneo è Lampedusa e, secondo il magistrato Vella, questo la esime dalla pena per gli atti di resistenza a pubblico ufficiale e di violenza nei confronti della motonave della Guardia di Finanza ai quali è stata “costretta” per adempiere al suo dovere di portarci i naufraghi.

Che cosa rende insicura la Tunisia, tutti si domandano, dal momento che il paese è una meta di vacanze? Ben 8,3 milioni di turisti stranieri nel 2018 (103.000 dei quali italiani). Ma una cosa è arrivarci da turisti e una cosa è arrivarci da naufraghi. Spiega il magistrato Vella che le previsioni della SAR e le linee guida adottate dal Comitato per la Sicurezza dell’Imo, l’Organizzazione marittima internazionale, richiedono che le persone tratte in salvo siano portate dove: la loro sicurezza non è più in pericolo; le necessità primarie (cibo, alloggio e cure mediche) sono assicurate; e può essere organizzato il loro trasferimento verso una destinazione finale.

Se si fosse data il tempo di verificare, Vella forse non avrebbe costruito l’impianto della sua ordinanza sulla falsa premessa che, in base a questa normativa, eccetto Lampedusa, nessun porto del Mediterraneo in prossimità della Libia è sicuro, neanche quelli tunisini.  

In collaborazione con il governo, in Tunisia infatti opera l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, i cui uffici a Tunisi coordinano anche le attività del personale che gestisce i campi allestiti per assistere gli emigranti riportati in Libia dalla Guardia Costiera o bloccati nel paese per qualche ragione. Perciò molti emigranti illegali soccorsi in mare vengono portati in Tunisia: perché vi ricevono assistenza, cure mediche, ospitalità e perché hanno l’opportunità di tornare nei rispettivi paesi di origine, il che soddisfa tutte le condizioni poste dalla normativa internazionale.

Tra il 10 e il 12 maggio, ad esempio, sono state salvate da alcuni naufragi e subito portate in Tunisia 85 persone partite dalla Libia. L’Oim e la Mezzaluna Rossa tunisina li hanno presi in carico nei centri di Sfax e di Zarzis. “L’urgenza è stata innanzitutto garantire le cure mediche necessarie ai migranti e fornire loro soluzioni di alloggio temporaneo in condizioni dignitose – spiegava il 28 maggio Daghrir Rabi, capo della delegazione Oim di Sfax – 15 minori non accompagnati sono stati sistemati presso il Centro di Inquadramento e Orientamento Sociale di Sfax, grazie agli sforzi congiunti del Ministero degli Affari sociali tunisino e di delegati alla protezione dei minori. Nel contempo, le varie organizzazioni della società civile hanno potuto accogliere 13 giovani donne e minori a Tunisi. L’Oim, oltre ad assicurare le cure mediche del caso, ha facilitato anche il contatto con le famiglie di origine, in collaborazione con il Comitato internazionale della Croce Rossa”. Il 24 maggio già un primo gruppo di 19 emigranti – un egiziano e 18 bengalesi – lasciava in aereo il paese, usufruendo del programma di ritorno volontario assistito dell’Oim, realizzato con contributi finanziari dell’Unione europea.

A giugno invece il rimorchiatore Maridive 601 ha dovuto aspettare per giorni di sbarcare i 75 emigranti che aveva a bordo, anche loro soccorsi al largo della Libia, ma perché le autorità tunisine chiedevano l’eventuale disponibilità al rimpatrio volontario di quelli che non intendevano chiedere asilo. L’autorizzazione allo sbarco è stata infine concessa il 18 giugno, con l’assicurazione da parte di Lorena Lando, capo missione dell’Oim, che la sua organizzazione era pronta a dare assistenza umanitaria e medica a tutti gli emigranti e a fornire assistenza a chi vorrà rientrare nel paese di origine.

I naufraghi che invece chiedono asilo vengono presi in carico dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che, come l’Oim, ha una sede a Tunisi. Pensando proprio ai profughi il magistrato Vella aggiunge nella sua ordinanza che, oltre tutto, “la Tunisia non prevede una normativa a tutela dei rifugiati, quanto al diritto di asilo”. Può darsi, ma la Tunisia nel 1957 ha aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, nel 1968 al Protocollo sui rifugiati del 1967, nel 1989 alla Convezione sui rifugiati dell’Organizzazione dell’Unità Africana (ora Unione Africana). In effetti fino al 2014 mancava un sistema globale di asilo e per questo, ad esempio, i rifugiati riconosciuti dall’Unhcr non ottenevano automaticamente i certificati di residenza. Da quell’anno, con il sostegno di Onu e Unione europea, il governo ha avviato lo sviluppo di un sistema di asilo complessivo.  

Peraltro per gli emigranti illegali diretti in Europa la questione dell’asilo è marginale dal momento che tra di loro i profughi sono una minima percentuale. Quelli della Sea Watch 3 non fanno eccezione.