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Radicalizzazione e reclutamento jihadista: ecco perché il carcere è il luogo più a rischio

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Il processo di radicalizzazione jihadista consiste in un cambiamento cognitivo, il quale porta un individuo ad adottare una visione del mondo ed una ideologia estremista di tipo, generalmente, salafita. Tale processo può avvenire in differenti luoghi: le moschee, i centri sportivi, i centri culturali, le moschee “garage”, gli istituti penitenziari, internet, ecc… In questo caso mi soffermerò sugli istituti penitenziari, i quali sono diventati col tempo un luogo dove il proselitismo ha colpito numerose vittime.

La radicalizzazione jihadista nelle carceri è un fenomeno divenuto evidente a partire dagli anni 90, quando aumentarono i detenuti di religione islamica e i condannati per terrorismo di matrice islamista. Le carceri sono da sempre un luogo di reclutamento da parte di membri di qualunque matrice o movimenti e anche i radicali islamisti si sono adeguati a far proselitismo, per dovere, wajibat, religioso e come obiettivo politico.

Il carcere è un luogo che per sua natura favorisce la radicalizzazione, in quanto la detenzione pone gli individui, in questo caso musulmani o convertiti, in stretto contatto con la precarietà esistenziale, nonché con la religione, la quale favorisce un benessere psicologico e sociale per l’individuo. È noto come nelle carceri vi siano individui vulnerabili, frustrati, emarginati, con background criminali, i quali individui sono proprio il giardino da coltivare per chi persegue il proselitismo e il jihadismo.

I c.d. reclutatori hanno raffinato le proprie abilità nell’individuare soggetti particolarmente in difficoltà, con identità labili e in crisi. Difatti, il carcere è un luogo che destruttura le identità e pone i detenuti al di fuori dei rapporti sociali e famigliari, li priva della libertà, portandoli verso uno stato emotivo di rabbia e di emarginazione. Il bisogno di appartenere alla società, l’esigenza di essere accettati, l’imperativo categorico che fonda la necessità di possedere un’identità, l’urgenza di trovare tutela dalla possibile violenza fisica e psicologica, favorisce in alcuni detenuti la ricerca di un ancora di appoggio e di salvezza. L’ancora è l’ideologia o una particolare interpretazione della religione. In un contesto come quello descritto, la religione svolge un ruolo salvifico, capace di reprimere il senso di alienazione dal mondo circostante e di attenuare la sensazione di sconfitta, la depressione e la privazione della libertà che segue la reclusione.

I detenuti di religione islamica, generalmente, o non musulmani, si converto o riconvertono (born again) all’islam. L’islam permette loro di ricostruire un’identità nuova, e reca senso e significato alla condizione di esasperazione, nonché dona una via per ricostituire un ordine interiore. Il ruolo della religione è fondamentale nel processo di radicalizzazione, soprattutto all’interno degli istituti penitenziari, in quanto elimina le vulnerabilità del detenuto, creando una routine quotidiana e quindi una scansione del tempo rigorosa e dando un senso al proprio stato d’essere e di coscienza. Il problema fondamentale negli istituti penitenziari, di conseguenza, è la mancanza di regolamentazione della religione islamica nonché, l’incapacità di individuare coloro che utilizzano la religione per scopi essenzialmente inerenti la “fede” e coloro che invece applicano il rigorismo metodico scavalcando il fondamentalismo e giungendo alla forma più estrema del salafismo jihadista. Il salafismo però, non è, di per sé, un indicatore sicuro di radicalizzazione, ma è una corrente del mondo musulmano che sfocia, nella maggior parte dei casi, nel quietismo. Non tutti i salafiti sono jihadisti, anche se tutti i jihadisti sono salafiti.

La radicalizzazione è in atto quando c’è l’adesione a una concezione del mondo, Weltanschauung, e l’adesione a forme d’azione che implicano la violenza con legittimità religiosa e politica, mirante l’instaurazione di un nuovo ordine sociale e istituzionale (basato sulla shari’a). Non deve esserci una particolare osservanza religiosa, in quanto è l’ideologia la sfera decisiva della radicalizzazione; ne sono una prova le innumerevoli biografie di jihadisti, dove si riscontra una poca conoscenza della religione e una poca osservanza dei precetti. La religione pone l’ideologia in una dimensione del “sacro” e ne consegue che l’ideologia jihadista è investita da una sacralità che attrae individui vulnerabili, cooptati da reclutatori carismatici, da imam radicali e da attivisti. Questo accade negli istituti penitenziari ma anche nella vita quotidiana al di fuori delle carceri, attraverso internet e in luoghi come le moschee garage o nei ristoranti halal.

Per concludere, bisogna far sì che le strutture penitenziare si muniscano di una conoscenza dell’islam, cosa al quanto carente al giorno d’oggi, e che si riesca ad “assecondare” alcune richieste. In particolare, è necessario fornire ad ogni carcere un imam preparato che guidi i fedeli verso una corretta interpretazione dell’islam e soprattutto è di vitale importanza che vi sia una forte connessione fra le strutture penitenziarie e i servizi d’intelligence, in particolare al momento del rilascio di individui ritenuti radicalizzati, quest’ultimi spesso poco attenzionati una volta in libertà (vedi Anis Amri). Insomma, ciò che preme di più per un contrasto efficace della radicalizzazione nelle carceri, è la creazione di un programma che porti un’approfondita conoscenza del jihadismo in particolare, e dell’islam in generale, affinché si possano riconoscere adeguatamente comportamenti, attitudini, abitudini, modi di pensare e di agire. Ciò favorirà l’islam in quanto non ci sarà più una generalizzazione che porta all’equazione osservante=radicalizzato, e favorirà le strutture penitenziarie a concentrarsi su chi per davvero può o, potrà, una volta rilasciato, portare avanti un percorso di radicalizzazione o, ancor peggio, far proselitismo e dar vita a operazioni terroristiche.

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