Innanzitutto, bisogna premettere che qui non si tratta solo dell’autonomia e delle libertà di Hong Kong. Si tratta di Taiwan, del Mar Cinese meridionale, degli altri Paesi del Sud-Est asiatico, delle ambizioni di leadership globale della Cina comunista. Sono tutte tessere dello stesso domino. Hong Kong è la prima, ma è anche un test. Pechino ha scelto questo momento per porre fine all’autonomia della ex colonia britannica non solo perché gli ultimi mesi hanno dimostrato che sta perdendo la sua presa su di essa e l’autorità della governatrice Lam è ormai compromessa, non appare in grado di ristabilire l’ordine e un nuovo rovescio alle elezioni legislative di settembre è più che probabile. È anche perché i suoi avversari appaiono in difficoltà, indeboliti economicamente e politicamente, i governi e le opinioni pubbliche distratti dalla pandemia e concentrati sulla risposta alla crisi economica e sociale. Da come risponderanno su Hong Kong, però, dipenderanno le prossime mosse della leadership cinese.
Le dichiarazioni su Taiwan del generale Li Zuocheng, membro della Commissione militare centrale, sono eloquenti in tal senso:
“Se la possibilità di una riunificazione pacifica sarà persa, le forze armate, con tutta la nazione compresa la popolazione di Taiwan, prenderanno tutte le misure necessarie per distruggere in modo risoluto ogni complotto o azione separatista. Non promettiamo di abbandonare l’uso della forza e ci riserviamo l’opzione di intraprendere tutti i passi necessari per stabilizzare e controllare la situazione nello Stretto di Taiwan”.
Il prossimo obiettivo è già nel mirino… Se non si coglie appieno il rischio di un vero e proprio effetto domino, in grado nell’arco di un periodo di tempo relativamente breve di aumentare in modo esponenziale la potenza della Repubblica Popolare Cinese, non si può comprendere nemmeno il motivo, e il timing, di una risposta degli Stati Uniti di tale portata. Washington infatti ha giocato d’anticipo, senza aspettare che la legge sulla sicurezza nazionale, dopo il primo via libera del Congresso Nazionale del Popolo, fosse implementata e introdotta nell’ordinamento di Hong Kong, processo che presumibilmente durerà qualche settimana. Quasi uno strike preventivo quello messo a segno dall’amministrazione Trump in questi giorni.
“Ripetutamente la Cina ha infranto le promesse fatte a noi e ad altre nazioni. Vogliamo una relazione costruttiva con la Cina, ma l’interesse nazionale dell’America viene prima”, ha esordito il presidente Trump ieri sera parlando alla stampa per una decina di minuti dal Rose Garden della Casa Bianca. È tornato ad attaccare duramente Pechino per il cover-up sull’origine del virus, per non aver impedito la diffusione del contagio nel mondo, provocando molti morti e ingenti danni economici, ma anche per le sue politiche commerciali scorrette.
Riguardo Hong Kong, “la Cina ha sostituito la formula promessa, un Paese, due sistemi, con un Paese, un sistema“, una “palese violazione” dei suoi obblighi previsti dalla dichiarazione sino-britannica del 1984. E ha quindi annunciato una serie di misure:
- ha ordinato di iniziare il processo per la revoca del trattamento speciale riconosciuto a Hong Kong rispetto al resto della Cina e l’aggiornamento degli avvisi di viaggio tenendo conto “dell’aumentato pericolo di sorveglianza e punizioni da parte degli apparati di sicurezza del regime cinese”. Mercoledì scorso, il segretario di Stato Pompeo aveva già certificato al Congresso che Hong Kong non gode più di “un alto grado di autonomia” dalla Cina, requisito indispensabile perché lo status privilegiato previsto dall’Hong Kong Policy Act del 1992 venga mantenuto;
- ha ordinato di compiere i passi necessari per sanzionare i funzionari di Pechino e di Hong Kong “direttamente o indirettamente coinvolti nell’erosione dell’autonomia di Hong Kong”;
- ha annunciato la fine delle relazioni con l’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Poiché non sono riusciti a realizzare le riforme richieste e fortemente necessarie, oggi porremo fine alle nostre relazioni con l’Oms e reindirizzeremo tali fondi ad altre urgenti esigenze di salute pubblica globale. (…) I funzionari cinesi hanno ignorato i loro obblighi di comunicazione all’Oms e l’hanno spinta a indurre in errore il mondo quando il virus è stato scoperto”, ha spiegato il presidente.
Altre misure annunciate ieri sera da Trump sono più strettamente legate alla sicurezza nazionale e hanno lo scopo di contrastare lo spionaggio e il furto di proprietà intellettuale e di tecnologia da parte cinese ai danni delle istituzioni accademiche e di ricerca americane: “Per anni, il governo cinese ha condotto spionaggio illecito per rubare i nostri segreti industriali”.
- previsto il blocco dei visti agli studenti cinesi che “rappresentano un rischio per la sicurezza”, perché legati a entità in Cina che implementano o sostengono la strategia Military-Civil Fusion.
- ordinata una revisione del gruppo di lavoro presidenziale sui mercati finanziari sulle “pratiche divergenti” delle compagnie cinesi quotate a Wall Street: “Gli investitori americani non devono essere sottoposti ai rischi nascosti e indebiti associati al finanziamento di società cinesi che non rispettano le stesse regole”, ha spiegato il presidente.
E nella serata di ieri la Casa Bianca ha reso nota anche una telefonata tra il presidente Trump e il primo ministro britannico Boris Johnson, nella quale i due hanno concordato di cooperare nel rispondere a qualsiasi azione di Pechino contro l’autonomia e la volontà del popolo di Hong Kong e hanno discusso una serie di dossier, dalla risposta globale al coronavirus all’accordo di libero scambio Usa-Uk, convenendo sull’importanza che il prossimo meeting dei leader del G7 avvenga “di persona”.
E l’Europa, come ha risposto alle mosse di Pechino?
L’Unione europea ha deciso deliberatamente di non associarsi alla dichiarazione congiunta Usa-Uk-Canada-Australia su Hong Kong, impedendo così che l’Occidente si esprimesse in modo compatto sul tentativo di Pechino di cancellare l’autonomia e le libertà della ex colonia britannica. Una fonte ha riferito al corrispondente del Wall Street Journal a Bruxelles che l’Ue era stata informata in anticipo della dichiarazione, messa al corrente del messaggio, e che il testo era aperto alla sua firma.
Ma i ministri degli esteri dei 27 dovevano ancora riunirsi e, come ha spiegato ieri l’Alto rappresentante Josep Borrell, rispondendo ad una domanda sul perché l’Ue non abbia aderito, “noi abbiamo una nostra dichiarazione. Non abbiamo bisogno di unirci alle dichiarazioni altrui”.
La differenza tra le due prese di posizione è netta: Usa, Regno Unito, Australia e Canada hanno espresso “profonda preoccupazione”, definendo la decisione di Pechino di imporre una legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong “in diretto contrasto con gli obblighi internazionali” assunti dalla Repubblica Popolare Cinese con la dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984, “legalmente vincolante e registrata all’Onu”. Quindi, il richiamo a Pechino a “lavorare insieme al governo e al popolo di Hong Kong” per giungere ad un “compromesso accettabile a entrambe le parti che rispetti gli obblighi internazionali della Cina”.
Dai 27 Paesi Ue è uscita come al solito una dichiarazione fiacca: innanzitutto, molto più stringata, senza riferimenti alla stabilità, alla prosperità e alle libertà di Hong Kong minacciate dalle intenzioni di Pechino. Anche l’Ue si dice “seriamente preoccupata” per le misure adottate dalla Cina il 28 maggio, che “non sono conformi” ai suoi impegni internazionali (più morbido rispetto a “in diretto contrasto”) e rischiano di “minare seriamente il principio un Paese, due sistemi e l’alto grado di autonomia di Hong Kong”. “Solleveremo la questione nel nostro dialogo continuo con la Cina”, conclude la nota. Nessun passaggio che possa apparire agli occhi di Pechino come una “ingerenza” nei suoi affari interni, come invece i numerosi riferimenti dell’altra dichiarazione al popolo di Hong Kong come controparte con la quale raggiungere un compromesso.
Definendo la Cina “un partner strategico, un rivale ma anche un alleato per le strategie che l’Ue intende perseguire nei prossimi anni”, Borrell mostra tutta la confusione che regna tra i 27. Ma al dunque, alla domanda esplicita se le azioni della Cina a Hong Kong potrebbero condizionare gli investimenti europei, risponde con un secco “no”, così come sulla possibilità di sanzioni: “Non sono il modo di risolvere i nostri problemi con la Cina”.
Anche se a Bruxelles spiegano che l’approccio europeo con la Cina è cambiato, ora sarebbe percepita come un rivale sistemico in continua crescita, in realtà cambiamenti concreti non se ne vedono. L’Ue è indispettita soprattutto per la mancanza di reciprocità in campo commerciale. Il tentativo degli ultimi mesi è di negoziare più duramente, ma Pechino continua a rimandare e ad aggirare le questioni di fondo e nulla è cambiato. Nel frattempo, sono arrivate la pandemia e le decisioni su Hong Kong, l’approccio della diplomazia cinese è diventato molto più aggressivo, la propaganda più intensa e le pressioni nei confronti di alcuni Paesi europei più spudorate, umilianti. Ma fondamentalmente l’approccio Ue è rimasto lo stesso: “Solleveremo la questione nel nostro dialogo continuo con la Cina”. Senza crearle imbarazzi.
Nessuna sorpresa. D’altra parte, Berlino e Parigi teorizzano da tempo una equidistanza strategica dell’Europa tra Washington e Pechino. Pensare che la dichiarazione Ue su Hong Kong sia stata ammorbidita per effetto delle pressioni del governo filo-cinese italiano è semplicemente ridicolo.
Basti pensare che lo stesso giorno, mercoledì scorso, in cui il segretario di Stato Usa Pompeo dichiarava Hong Kong “non più autonoma dalla Cina”, e nell’imminenza del primo via libera di Pechino alla legge sulla sicurezza nazionale, in un discorso sul prossimo semestre di presidenza tedesca dell’Ue la cancelliera Merkel affermava che l’Europa ha un “grande interesse strategico” nel mantenere la cooperazione con la Cina, nonostante una crescente lista di rimostranze.
Le relazioni Ue-Cina, annunciava la cancelliera, saranno la top priority del semestre di presidenza di Berlino, che punterà a mantenere con Pechino un dialogo “cruciale e costruttivo”: “Noi europei dovremo riconoscere la determinazione con cui la Cina rivendicherà una posizione di leader nelle strutture esistenti dell’architettura internazionale”. Ecco, è esattamente ciò a cui – giustamente – si oppone Washington, temendo che Pechino finisca per riuscire a rimodellare l’ordine internazionale secondo il proprio sistema di potere e i propri interessi.
La cancelliera Merkel ha ribadito anche il suo obiettivo di completare un accordo sugli investimenti con la Cina, nonché di trovare un terreno comune nella lotta ai cambiamenti climatici e alle sfide sanitarie globali. Sembra che l’Ue a guida tedesca sia già completamente inserita nell’ottica di quella “comunità umana dal futuro condiviso” che rappresenta la parola d’ordine delle ambizioni egemoniche del PCC.
Berlino non ha alcuna intenzione di cancellare il prossimo vertice Ue-Cina in programma a settembre a Lipsia, nonostante tutto quello che è accaduto in questi mesi, dal cover-up di Pechino sul virus alle tensioni su Hong Kong. Una dichiarazione non si nega, ma la sostanza non può certo cambiare per questi fastidiosi dettagli – una pandemia e l’aggressione all’autonomia dell’ex colonia britannica…
Sembra molto difficile però che l’Ue possa riuscire a strappare un accordo sugli investimenti simmetrico, il rischio è che Pechino coglierà la palla al balzo della crisi per acquistare a saldo asset strategici europei – per lo meno dei Paesi Ue più colpiti dalla pandemia (col permesso di Berlino, s’intende).
La storia si è rimessa in moto e occorre guardare agli ultimi sviluppi con realismo. L’Atlantico si sta allargando, l’Occidente è diviso di fronte al grande rivale del XXI secolo. La pandemia e la crisi di Hong Kong potrebbero rappresentare un momento spartiacque: da una parte, l’Anglosfera, i quattro Paesi che hanno espresso la posizione più ferma su Hong Kong – Stati Uniti, Regno Unito, Australia e Canada. Dall’altra, la Vecchia Europa sempre più appendice dell’Eurasia. La Russia, in mezzo, destinata a rientrare anch’essa – più nolente che volente – nell’orbita cinese, perché senza la Germania è difficile che Washington da sola riesca a indurre Mosca a rivolgere il suo sguardo a occidente.