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Rapporto Horowitz: FBI ingannò la Corte FISA per spiare la Campagna Trump. E ora arriva Durham

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Evidenti abusi dell’FBI contro Trump: ha ingannato i giudici per ottenere i mandati di sorveglianza, usando le informazioni false e non verificate del dossier Steele (pagato dalla Clinton) e omettendo fatti scagionanti

Ora la palla passa a Durham, che ha più poteri di Horowitz e ha raccolto prove “da altre persone ed entità, sia negli Stati Uniti che fuori dagli Stati Uniti”

Mifsud non lavorava per l’FBI (il che non esclude altre “western intelligence”)

Un rapporto devastante per l’FBI dell’ex direttore Comey quello dell’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia Michael Horowitz pubblicato ieri, le cui conclusioni demoliscono l’indagine di controintelligence aperta sulla Campagna Trump e, come vedremo, non diradano, anzi confermano la fondatezza dei sospetti sulle origini stesse di quell’indagine. Anche se l’IG non arriva ad accusare l’FBI di bias politico, le violazioni così gravi e sistematiche che il suo rapporto ricostruisce si spiegano solo con la volontà di colpire Trump e i suoi associati anche e soprattutto dopo la sua elezione. Ma se c’è stato un complotto ai suoi danni da parte di agenzie e/o singoli Usa e stranieri, questo sarà compito del procuratore Durham, la cui inchiesta è penale, accertarlo.

Innanzitutto, il rapporto conferma gli abusi commessi dall’FBI al fine di ottenere i mandati di sorveglianza nei confronti di Carter Page, uno dei consiglieri della Campagna Trump, che erano già stati denunciati nel febbraio 2018 dall’allora presidente della Commissione Intelligence della Camera Devin Nunes, mentre smentisce del tutto il deputato democratico Adam Schiff che all’epoca, pur avendo accesso alle stesse informazioni, aveva contestato punto per punto quel promemoria e che oggi, alla guida della stessa Commissione, è protagonista della procedura di impeachment.

“Abbiamo concluso – scrive Horowitz – che i fallimenti sopra descritti e in questo rapporto rappresentano gravi errori da parte degli agenti, di supervisione e non, con responsabilità sulle domande FISA” (Foreign Intelligence Surveillance Act). L’ex direttore Comey firmò personalmente una delle domande. L’Agenzia ingannò la Corte competente ad autorizzare la sorveglianza in indagini di controintelligence con informazioni false, manipolate o non verificate, e con gravi omissioni di informazioni a discarico. Il rapporto dettaglia 35 diversi casi in cui i fatti rappresentati in queste richieste non erano supportati da alcuna documentazione, o la documentazione non supportava le accuse, o addirittura le confutava esplicitamente. E conta in tutto 51 violazioni, 9 false dichiarazioni, 17 gravi errori e omissioni per vedersi autorizzata la sorveglianza.

Come aveva anticipato Nunes, il dossier Steele – un dossier spazzatura, con informazioni che l’FBI sapeva essere false e mai verificate, messe insieme dall’ex agente britannico pagato da una società incaricata e finanziata dalla Campagna Clinton e dal Comitato Democratico – ha avuto un “ruolo centrale ed essenziale” nella decisione dell’Agenzia di chiedere l’autorizzazione a sorvegliare uno dei membri della Campagna Trump. L’ispettore generale ha stabilito che il dossier Steele è ciò che ha fornito all’amministrazione Obama la giustificazione per spiare Carter Page e che la domanda FISA “ha attinto pesantemente, anche se non interamente, dal dossier Steele per sostenere la posizione del governo” secondo cui Page era un agente russo. Ma l’FBI “non aveva informazioni a conferma delle accuse specifiche contro Page nei rapporti Steele mentre basava su di esse le domande FISA”. Ma c’è di più. Alcune informazioni, annota Horowitz, “erano discordanti con le accuse o le invalidavano”. E quando l’FBI veniva a conoscenza di informazioni che contraddicevano le fonti utilizzate da Steele, le ometteva intenzionalmente dalle sue domande alla Corte FISA.

Dunque, sia nella domanda per la prima autorizzazione (del 21 ottobre 2016) che nelle successive tre richieste di proroga della sorveglianza (nel 2017), l’FBI nascondeva deliberatamente alla Corte competente 1) le informazioni a discolpa di Page che via via emergevano dall’indagine; 2) l’origine e lo scopo politico del dossier Steele, pagato dalla campagna avversaria di Trump, sulle cui informazioni si basavano le richieste (fu lo stesso Steele a rivelare al DOJ di odiare Trump e di essere stato incaricato dai suoi avversari di trovare materiale contro di lui); 3) la mancanza di credibilità di Steele. L’ex agente britannico, infatti, conferma Horowitz, non era la fonte originaria di nessuna delle informazioni fattuali contenute nei suoi rapporti, ma si basava su fonti secondarie. Non era l’autore, ma il compilatore del dossier con informazioni di seconda mano raccolte da altri. Di fatto, un “avatar”, il cui nome, avendo già collaborato con l’agenzia in passato, avrebbe permesso ad un dossier non corroborato e altrimenti di dubbia provenienza di essere preso in considerazione. Inoltre, l’FBI dichiarava alla Corte FISA che Steele era credibile perché precedenti informazioni che aveva fornito nella veste di informatore “erano state usate in procedimenti penali” dal Dipartimento di Giustizia. Ma Horowitz ha accertato che questa affermazione è falsa.

Violazioni tanto più gravi se pensiamo che la sorveglianza che l’FBI chiedeva di autorizzare avrebbe preso di mira non un cittadino qualsiasi, ma prima la campagna di uno dei candidati alla presidenza, guarda caso del partito avverso a quello del presidente in carica, poi il team del presidente eletto.

Anche se Horowitz si guarda bene dal giungere a tale conclusione, alcuni elementi che riporta nel suo rapporto sembrano indicare che la Campagna Trump fosse nel mirino dell’FBI ancor prima dell’apertura ufficiale dell’indagine Crossfire Hurricane il 31 luglio 2016. Paul Manafort era già sotto inchiesta dell’FBI, ma soprattutto nel rapporto si afferma che “il team di Crossfire Hurricane impiegò diversi informatori (confidential human sources), il che portò a interazioni multiple con Page e Papadopoulos sia prima che dopo che si unissero alla Campagna Trump, e ad una interazione anche con un membro di alto livello della campagna che non era oggetto di indagine”. Qualcosa non torna, perché l’indagine fu aperta formalmente il 31 luglio 2016, quindi solo dopo che i due si erano già uniti alla campagna.

Dove invece Horowitz “assolve” l’FBI è sull’apertura dell’indagine: c’erano elementi “sufficienti a soddisfare la bassa soglia fissata dal Dipartimento e dall’FBI” e “non abbiamo trovato prove documentali o testimoniali che pregiudizio politico o motivazioni inappropriate abbiano influenzato la decisione di aprire” l’indagine.

Tuttavia, tale conclusione viene contestata esplicitamente sia dal procuratore John Durham, che sta conducendo un’indagine penale e ha poteri molto più estesi, ben oltre Dipartimento di Giustizia e FBI, sia dall’Attorney General William Barr.

“Basandoci sulle prove raccolte finora, e mentre la nostra indagine prosegue – dichiara Durham in una nota diffusa pochi minuti dopo il rapporto Horowitz – il mese scorso abbiamo informato l’ispettore generale che non concordiamo con alcune delle conclusioni del rapporto riguardo il presupposto e il modo con i quali l’indagine dell’FBI fu aperta”.

Il procuratore Durham sta dicendo che il rapporto Horowitz non include prove più recenti raccolte da lui stesso e dal suo team in patria e all’estero – Italia, Regno Unito, Australia – che mostrerebbero anche un vizio d’origine. Nella sua nota Durham ricorda infatti che la sua indagine non si limita a elaborare informazioni interne al Dipartimento di Giustizia, come quella di Horowitz, ma comprende informazioni “da altre persone ed entità, sia negli Stati Uniti che fuori dagli Stati Uniti”. E qui troviamo la conferma che nelle scorse settimane Durham e il suo team hanno raccolto elementi di prova anche in altri Paesi, tra cui l’Italia, dove il 27 settembre scorso il procuratore, insieme all’AG Barr, ha incontrato i vertici dei nostri servizi – e dove secondo indiscrezioni sarebbe pronto a tornare nelle prossime settimane.

Riguardo il professore maltese della Link Campus Joseph Mifsud, dai cui incontri con Papadopoulos è scaturita l’indagine sulla Campagna Trump, Horowitz scrive nel suo rapporto che da una verifica condotta sugli archivi delle confidential human sources dell’Agenzia “non sono stati trovati record che indicano che Mifsud fosse una fonte confidenziale dell’FBI, o che i suoi incontri con Papadopoulos fossero un’operazione dell’FBI, e nessuno dei testimoni che abbiamo intervistato o dei documenti che abbiamo visionato aveva informazioni a sostegno di questa affermazione”. Ma questo, essendo l’FBI solo una delle agenzie di intelligence Usa, non esclude che Mifsud, come abbiamo più volte ipotizzato nel nostro speciale e come sostiene il suo legale Stephan Roh, fosse una “risorsa” di qualche western intelligence – di Paesi alleati, magari il DIS italiano o l’MI6 britannico, o della stessa CIA.

D’altra parte, lo stesso Horowitz nel rapporto premette che la sua indagine aveva un campo limitato al Dipartimento di Giustizia e all’FBI, mentre è l’indagine penale del procuratore Durham che riguarda anche il ruolo di altre agenzie Usa e il coinvolgimento di altri Paesi, tra cui l’Italia. Il mandato di Horowitz era verificare il rispetto o meno da parte dell’FBI dei requisiti procedurali, delle linee guida e delle politiche interne relativamente alle richieste di mandato FISA e alle condotte nell’indagine. Lo stesso ispettore ricorda che “non sono state analizzate tutte le decisioni prese nell’indagine Crossfire Hurricane“, e che “il nostro ruolo in questa revisione non era giudicare con il senno di poi i giudizi discrezionali del personale del Dipartimento circa il se aprire l’indagine”.

Per l’AG William Barr, il rapporto “rende ora chiaro che l’FBI lanciò un’indagine intrusiva su una campagna presidenziale basandosi sui più deboli dei sospetti che, a mio giudizio, erano insufficienti per giustificare i passi intrapresi”. Non solo, Barr evidenzia un altro aspetto molto importante: dal rapporto Horowitz emerge chiaramente come “dall’inizio, le prove raccolte nell’indagine erano costantemente scagionanti. Nonostante questo, l’indagine e le intercettazioni sono state portate avanti per la durata della campagna e fino all’interno dell’amministrazione Trump”.

Già tra il settembre e l’ottobre 2016, prima che l’FBI richiedesse l’autorizzazione a sorvegliare Carter Page, “le registrazioni effettuate dalle confidential human sources non avevano raccolto informazioni a sostegno delle accuse secondo cui Page e Papadopoulos stavano, consapevolmente o inconsapevolmente, fornendo assistenza alla Russia”. Per esempio, tra le informazioni tenute nascoste alla Corte FISA, la lettera di Page a Comey in cui negava le accuse; le dichiarazioni di Papadopoulos raccolte nel settembre 2016 da un informatore ad un incontro monitorato dall’FBI, secondo cui nessuno della Campagna Trump stava collaborando con la Russia o con gruppi esterni come Wikileaks nella diffusione delle email hackerate; e quelle del professor Mifsud che interrogato nel febbraio 2017 aveva negato di aver parlato a Papadopoulos di email di Hillary Clinton in mano ai russi. Inoltre, quando tra settembre e ottobre il team di Crossfire Hurricane apprende dei report di Steele, il Dipartimento di Giustizia è già a conoscenza della mancanza di credibilità dell’ex agente e delle motivazioni politiche del suo dossier anti-Trump.

Una invasiva indagine di controintelligence sulla campagna presidenziale del partito di opposizione viene quindi lanciata, come accertato da Horowitz, sulla base della soffiata di un governo straniero alleato (il diplomatico australiano Alexander Downer riferisce che Papadopoulos ha saputo da Mifsud di “migliaia di email” della Clinton in mano ai russi) e nell’arco di pochi giorni, nonostante attraverso suoi informatori l’FBI non avesse trovato conferme, semmai smentite, quattro membri della Campagna Trump vengono presi di mira per i loro contatti con i russi.

Se per l’IG le informazioni in possesso dell’FBI, cioè la rivelazione di Mifsud a Papadopoulos riferita da Downer, giustificavano l’apertura dell’indagine di controintelligence, appare per lo meno bizzarro che l’Agenzia non abbia chiesto un mandato FISA nei confronti di Papadopoulos e che Mifsud, l’intermediario tra la Campagna Trump e la Russia, secondo l’ipotesi investigativa, non sia stato né rintracciato con urgenza (viene interrogato solo nel febbraio del 2017), né incriminato. Forse perché le verifiche condotte avevano già dato esito negativo e, nel frattempo, era arrivato il dossier Steele.

Horowitz si è limitato a stabilire che tecnicamente le condizioni per l’apertura dell’indagine erano state soddisfatte, anche grazie alla “bassa soglia” richiesta dall’FBI per quel tipo di indagini. Ma i deboli elementi iniziali, l’assenza di conferme, le prove a discolpa ignorate, e i successivi abusi, non autorizzano ad escludere che il pregiudizio politico degli agenti e dei vertici dell’FBI abbia giocato un ruolo nella decisione di lanciare e proseguire un’indagine in cui da subito vennero impiegati strumenti molto invasivi su una campagna presidenziale. Di fatto è stata spiata un’attività costituzionalmente protetta, e anche se l’ispettore generale ha concluso che lo scopo non era monitorare la campagna del partito di opposizione, ha dovuto ammettere di non poter escludere che la sorveglianza possa aver portato alla “ricezione accidentale di informazioni sensibili sulla campagna”.

Ma al più tardi nel febbraio 2017, dopo l’insediamento di Trump, l’FBI sapeva che il dossier Steele era spazzatura e che nulla era emerso dai contatti Papadopoulos-Mifsud, quindi avrebbe dovuto chiudere l’indagine. Invece, venivano poste la basi per l’accusa di ostruzione. Non avendo portato a nulla di rilevante l’indagine sulla presunta collusione, la successiva nomina del procuratore speciale Mueller assume oggi tutte le sembianze di una trappola per indurre il presidente a commettere ostruzione alla giustizia.