È notevole che due registi alla loro prima prova, i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, centrino il bersaglio in modo così preciso. E riescano a trovare una forma, un racconto per immagini, così aderente al contenuto durissimo della loro storia.
La vicenda è quella di due giovanissimi, Mirko e Manolo, compagni di scuola sin da bambini. Di notte, in automobile, senza volerlo, uccidono una persona. Nei giorni successivi sarà chiara l’identità della vittima: il pentito di un clan criminale. L’aver dunque “oggettivamente” fatto un favore ai nemici del morto li porterà, in un crescendo inarrestabile, in una devastante catena di consequenzialità, all’interno di un circuito criminale spietato e miserabile.
Non c’è lusso, non c’è grandezza in quel male: è una specie di grigia giungla metropolitana. Nella quale i due giovani protagonisti si infilano senza bussola morale, senza alcuna consapevolezza della gravità delle cose che fanno e che vengono loro richieste.
Credibili e bravissimi i due attori principali (Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti), da elogiare in occasione della sua prima prova drammatica Max Tortora (padre di uno dei due ragazzi), molto convincente anche Milena Mancini, forse un po’ deludente Luca Zingaretti da cui era lecito attendersi qualcosa in più.
Ma quel che appare più riuscito è la scelta della cifra stilistica della regia: la storia è già un terribile pugno nello stomaco. E allora meglio non esagerare con moralismi e sentimentalismi: per questo, i fratelli D’Innocenzo scelgono giustamente una regia asciutta, l’alternarsi di primi piani ossessivi, lunghe scene in ombra, squarci metropolitani freddi e desolati. La devastante tragedia morale, sociale, umana che il film racconta non ha bisogno di escogitazioni fantasiose o di “trovate”: è più che sufficiente la freddezza e la precisione di una foto esatta, per non dire di un’analisi sul tavolo autoptico.
La visione del film lascia veramente scossi, si esce dalla sala in profondo silenzio. C’è da augurarsi che critica e osservatori non si abbandonino a tirate “sociali” sul degrado morale e ad analisi retoriche, ipocrite e vacue: è bene imparare dalla lucida disperazione del film, che reclama risposte vere, non comizietti.