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Recovery Fund alle forche caudine delle ratifiche nazionali: l’incognita olandese agita Roma

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Ieri abbiamo visto, su Atlantico Quotidiano, Varsavia e Budapest accingersi a ricorrere alla Corte europea di giustizia contro il nuovo Regolamento detto ‘sullo Stato di diritto’ e con assai buoni argomenti. Il Consiglio europeo ha approvato un compromesso, in forma di Dichiarazione interpretativa, che lascia ai due Paesi il tempo di far valere le proprie ragioni, senza nel frattempo subire conseguenze negative.

Contro di loro, i sostenitori dello ‘Stato di diritto’ punteranno su una lite secondaria, attinente alla Dichiarazione interpretativa del Regolamento; asserendo che la Commissione ha esorbitato dai propri poteri quando ha mutato almeno un elemento essenziale del Regolamento: la data di entrata in vigore.

La faccenda interessa assai, anche perché da essa dipende l’entrata in vigore del Recovery Fund, quindi la sopravvivenza del governo Conte.

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Non se ne possono immaginare i tempi senza prima averne definito l’oggetto del ricorso: di quale atto si chiederebbe l’annullamento o l’esecuzione? La Corte, infatti, “esercita un controllo di legittimità … sugli atti … della Commissione … che non siano raccomandazioni o pareri, nonché … sugli atti degli organi o organismi dell’Unione destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi” (263 Tfue).

[1] Potrebbero impugnare le linee guida della Commissione, il giorno in cui esse venissero mai prodotte. Ma significherebbe attendere la sentenza sul Regolamento … l’ultima cosa che i sostenitori dello ‘Stato di diritto’ possono desiderare.

[2] Potrebbero impugnare direttamente la Dichiarazione interpretativa del Consiglio europeo. Alemanno e Chamon argomentano che, prendendola alla lettera, essa registra una promessa, da parte della Commissione, che ha “una natura giuridicamente rilevante” e questo rimette in gioco la Corte, la quale “esercita un controllo di legittimità sugli atti legislativi, sugli atti … della Commissione … destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi”; conseguentemente, sarebbe possibile “proporre un ricorso di annullamento contro la Dichiarazione interpretativa del Consiglio europeo”, senza dover aspettare che la Commissione produca le linee guida.

Tuttavia, la Corte si è già trovata ad esprimere una opinione contraria piuttosto radicale: “per quanto riguarda la presunta incidenza della natura cosiddetta ‘politica’ delle conclusioni del Consiglio europeo … un’incidenza di tale natura, anche supponendola esistente e voluta da parte del Consiglio europeo, non può costituire un motivo per l’annullamento”. Si può quindi dubitare che, di un ricorso avverso la decisione, la Corte accetti di discutere.

[3] In alternativa, Alemanno e Chamon suggeriscono un ricorso per inazione (o ricorso per carenza): agire contro la Commissione per essersi astenuta dall’agire a norma del Regolamento. A meno del denegato caso che la Corte, nel frattempo, abbia concesso a Polonia e Ungheria la sospensiva che quelle certamente chiederanno. Praticamente, una volta che il Regolamento sarà entrato in vigore il 1° gennaio 2021, il Parlamento può sollecitare la Commissione ad agire; dipoi “se, allo scadere di un termine di due mesi da tale richiesta” la Commissione non avrà agito, allora “entro un nuovo termine di due mesi” potrà essere depositato ricorso (265 Tfue): indicativamente entro l’inizio di aprile 2021.

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Aprile 2021 è una data successiva al tempo in cui Macron e Conte promettono di vedere completate le ratifiche dei Parlamenti nazionali alla Decisione sulle Risorse Proprie, necessaria per avviare il Recovery Fund: Macron promette la ratifica francese a gennaio ed i soldi del Recovery Fund entro fine marzo, Conte tutte le ratifiche nazionali “in febbraio” ed i soldi “prima dell’estate”, i giornali tutti scrivono “presto”. Ad ogni buon conto, il Consiglio europeo ha invitato i Parlamenti nazionali a procedere alle ratifiche immediatamente dopo il voto favorevole del Parlamento europeo.

Aprile 2021, però, è pure un mese dopo le elezioni parlamentari del 15 marzo in Olanda. Quel felice Paese che dispone di un governatore della cui banca centrale, Klaas Knot, capace recentemente di affermare che l’Euro è “insostenibile” (come i lettori di Atlantico ricorderanno). Il 15 marzo è la data chiave, in tutta questa storia poiché, alla vigilia delle elezioni, il Parlamento olandese potrebbe eventualmente votare ciò che i suoi elettori non vogliono (la Decisione sulle Risorse Proprie, cioè il Recovery Fund), solo dando loro in cambio ciò che essi voglio (il Regolamento sullo ‘Stato di diritto’).

Lunedì è venuto a Roma il ministro degli esteri olandese, Stef Blok; a Di Maio ed Amendola ha dedicato un discorsetto ufficiale in cui ha parlato di “Van Basten, Gullit and Rijkaard”, per poi riservare ai giornalisti la ruvidezza consueta alla gente di quelle parti: “finora l’erogazione dei fondi europei non era vincolata alle riforme, il Recovery Fund introduce questa nuova condizionalità, abbiamo imparato la lezione”. Come? In due modi. In primo luogo, “l’Olanda ha insistito sulla condizionalità delle riforme economiche” ed ha ottenuto il ‘freno di emergenza’ (lo spiegammo a luglio su Atlantico), sicché, ora, “la condizionalità … si applica con qualsiasi governo sia in carica … indipendentemente dal risultato del processo elettorale”. In secondo luogo, l’Olanda ha ottenuto il ‘Regolamento sullo Stato di diritto’: “è importante che non ci siano grossi emendamenti, perché il testo a noi va bene e renderebbero le cose più complicate”; solo se tali cambiamenti non ci saranno, l’Olanda ratificherà “al più presto” e, comunque, “è il Parlamento che decide il calendario”.

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Non per nulla, la Commissaria Jourova si mostra preoccupata: alla Commissione viene detto, “ti stiamo dando i soldi, ma devi assicurarti che non paghi per le cose sbagliate, le persone sbagliate, i sistemi politici sbagliati”, sottoponendola a “uno scrutinio incredibilmente severo”, severo al punto da mettere in discussione la stessa Unione. Münchau avverte la presenza di “una categoria completamente nuova di antieuropei: difensori della democrazia e dei diritti umani … entriamo chiaramente in un mondo diverso, nel quale l’antieuropeismo diventa la scelta moralmente superiore”.

Naturalmente, Jourova parte dal presupposto che il Recovery Fund stia per “distribuire più soldi”, anzi “un fiume di soldi” … il che non è precisamente vero, considerato che il maggiore beneficiario teorico, l’Italia, in realtà (al netto fra incassi e versamenti, sommando Bilancio e programmi straordinari come il Recovery Fund, sull’intero settennio e nella eroica ipotesi che riesca a spendere tutti i soldi) riceverà gli 11 miliardi stimati da Liturri … ovvero non riceverà ma verserà i 35,6 miliardi stimati da Del Monaco, cifra non dissimile dai 36,3 miliardi che l’Italia ha versato nel settennio precedente. Tutto meno che “un fiume di soldi”. Invero, l’unico ‘vantaggio’ del Recovery Fund è portare il debito italiano fuori bilancio, come quando una azienda rifinanzia un mutuo con un leasing … e fa sorridere che Mattarella abbia fatto cenno a passate “stagioni non felici che hanno visto il prevalere delle logiche finanziarie sull’economia reale”, mentre assiste alla più grande operazione di debito fuori bilancio della storia d’Italia.

Tuttavia, Jourova e Münchau hanno ragione, perché nel Nord Europa sono veramente convinti di stare per essere spennati e lo sono a causa delle sciocchezze che si continuano a ripetere nel Sud Europa, citiamo a caso: Giuseppe Conte (“risorse straordinarie, di cui principale Paese beneficiario sarà l’Italia, lo ricordo: 209 miliardi più i miliardi del bilancio”), Vladimiro Zagrebelsky (“l’enormità delle somme che verranno distribuite tra gli Stati membri”), Boeri e Perotti (“un tesoretto di 85 miliardi di regali e 124 miliardi di prestiti agevolati da spendere in pochi anni … questa insperata ricchezza”), Panetta (“per l’Italia … la componente a fondo perduto può comprimere il rapporto tra debito pubblico e Pil di oltre 5 punti”), il ministro francese Beaune (“un guadagno”). Dunque, è ovvio che al Parlamento olandese stiano piuttosto arrabbiati.

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Ben conscio di tutto ciò, il primo ministro Rutte ha, prima seguito d’appresso l’intera discussione al Consiglio europeo, per poi far sapere di aver avanzato tre richieste: (a) essere rassicurato che la Dichiarazione non impedisce alla Commissione una applicazione retroattiva al 1° gennaio 2021, (b) essere rassicurato che la Dichiarazione non modifica la portata del Regolamento, (c) acquisire il consenso del Parlamento europeo. In risposta, ha ottenuto un parere del servizio giuridico del Consiglio: (a) in caso di via libera della Corte, l’applicazione del Regolamento sarà retroattiva; (b) nella Dichiarazione “nessun elemento è in conflitto con il Regolamento, lo contraddice o lo modifica”, in quanto la Commissione è sempre libera di annunciare la linea di condotta che intende seguire nella applicazione della legislazione; (c) infine, nulla si dice del parere del Parlamento.

Rutte si è fregato le mani ed ha passato la palla all’assemblea, la quale appare piuttosto divisa.

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  • Da una parte, i Popolari (Ppe) di Merkel, col suo presidente Weber, si danno un gran daffare a far sapere a tutti che “nessun punto e nessuna virgola vengono modificati, ora esso deve essere anche utilizzato … questa è una pietra miliare per l’Ue”; sul Corriere, egli oltrepassa il ridicolo, sostenendo che il Regolamento serve “per difendere l’indipendenza della magistratura e la libertà di opinione nell’Ue”, ossia il contrario di ciò che dice la Dichiarazione; interrogato sul rinvio, getta il cuore oltre l’ostacolo: “è vero … ci potrà essere qualche ritardo, ma nessuno può più evitare questa conseguenza” cioè, argomenta il collega suo Sarvamaa (Ppe, relatore e negoziatore del Regolamento), “in ogni caso, la Commissione non agirebbe prima che la Corte ne confermi la legalità, in caso di contestazione”.
  • A favore sono i Socialisti (S&D), con la Iratxe Garcia Perez e la ungherese Klara Dobrev, i quali però puntano su una veloce sentenza della Corte.
  • Seccati i Liberali (Renew) di Macron e Rutte i quali, in più, pretenderebbero una contro-dichiarazione del Parlamento a “rendere chiaro che nessuna dichiarazione del Consiglio può sovrascrivere un testo giuridicamente vincolante”.
  • Si dividono i Conservatori (Ecr) di Morawiecki e della Meloni, con il presidente della Commissione Bilancio e relatore del Bilancio pluriannuale, Van Overtveldt, che ha salutato l’accordo giovedì, per poi condannarlo venerdì.

Lunedì, il Regolamento è stato approvato dalla ‘Commissione per il controllo dei bilanci’. Martedì la plenaria ha bocciato il candidato polacco per la Corte dei Conti. Mercoledì, l’insieme dei testi (Bilancio pluriennale, Recovery Fund, il Regolamento nel suo testo originario) arriverà in plenaria e tutti si aspettano che il Parlamento dia via libera (pure Soros). Ma non tutti vedono le conseguenze di questo voto nello stesso modo: invero, voteranno a favore del Regolamento (qui la risoluzione di maggioranza, manifestamente incompatibile con la posizione della Commissione), sia quelli che vogliono significare acquiescenza alla Dichiarazione, sia quelli che vogliono significare rigetto della stessa.

Insomma, ad essere importante sarà, non il voto favorevole del Parlamento, ma l’uso che di questo voto faranno i Parlamenti dei Paesi più ostili al Recovery Fund, a cominciare da quello olandese: ne profitterà per attendere l’esito del ricorso per inazione?

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PS: scrive Ugo Magri che il Parlamento olandese sta in cima pure ai pensieri del presidente della Repubblica, lasciando intuire che sarebbe precisamente per non offrire ad esso nuove ragioni di dilazione, che egli non prende atto della crisi conclamata del governo Conte e, anzi, lo difende promettendo elezioni.

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