Tra qualche tempo – speriamo il prima possibile – cadranno le restrizioni e usciremo dall’attuale stato di congelamento di parte della nostra economia. Le speranze di ripartenza che media mainstream e gran parte della classe politica ripongono nell’esborso da parte della Commissione europea degli ormai mitologici fondi del Recovery Fund sono quanto meno esagerate. Sulla scorta di una visione impregnata di statalismo e di dirigismo, ci si aspetta che questo tanto anelato flusso di denaro rappresenterà l’occasione per riconfigurare la nostra economia, rendendola più verde, più digitale ed efficiente. E, già che ci siamo, femminista (!).
È difficile stabilire in che proporzione tale entusiasmo sia supportato da un ragionamento economico ovvero da fuffa retorica. Come si può sostenere, infatti, che una cifra in realtà così poco consistente, se paragonata alle dimensioni del nostro Pil, possa davvero dare avvio ad un cambio epocale? A onor del vero, si sostiene che non sarà tanto la cifra in sé a “stimolare” la trasformazione dell’economia, quanto le ‘condizionalità’ che tali fondi portano con sé, nonché un qualche effetto moltiplicatore degli investimenti privati. Risulta davvero difficile essere d’accordo con una tale impostazione: qualche effetto positivo lo si potrà forse ottenere in termini di domanda aggregata di breve periodo, nonché di crescita (marginale) della produttività derivante da una migliore infrastruttura tecnologica pubblica, ma lì ci si ferma. Il rischio di sprechi, invece, è molto elevato.
Guardiamola in prospettiva. Arriveremo al momento della riapertura con una quantità importante di imprese tenute sin lì a galla artificiosamente da crediti sovvenzionati, aiuti (per quanto esigui) e sospensione dell’attività. Stesso discorso vale per centinaia di migliaia di lavoratori formalmente in cassa integrazione ma di fatto disoccupati, in quanto legati ad attività in forte difficoltà – e che dunque al “liberi tutti” dovranno essere giocoforza ridimensionate – o direttamente a imprese zombie, di fatto in bancarotta. Non scordiamoci – come molti invece fanno, anche nel dibattito economico – che l’attività produttiva era già in fase discendente prima della crisi dovuta alla pandemia: ciò significa che il ciclo di espansione indotto da tassi di interesse artificialmente bassi era alle nostre spalle, e che ci si stava già disfacendo di imprese che rimanevano sul mercato solo in virtù di politiche monetarie (pericolosamente) espansive.
All’appuntamento con le riaperture e il rilancio dell’economia arriveremo dunque zavorrati non solo dalle tante imprese che sono andate sott’acqua per colpa della crisi pandemica, ma anche da attività che non avevano alcuna prospettiva economica già prima della crisi, e il cui numero era gonfiato dalle menzionate politiche monetarie ultra-espansive. In questo marasma ci si vorrebbe far credere che lo Stato saprà selezionare le imprese in grado di restare sul mercato, quando invece, al di là della concorrenza, lo Stato non dispone di alcuno strumento ulteriore (ne ha anzi parecchi di meno) per sapere chi avrà effettivamente successo. Inoltre, non dimentichiamo che al di là dell’ingente spreco potenziale di risorse dei contribuenti (italiani ed europei), i fondi del Recovery, come tutti i fondi pubblici, rischiano di alimentare mafie o semplici clientele ben addestrate nel captare e utilizzare questo genere di elargizioni.
Partendo da queste premesse, sarebbe assai più avveduto destinare tutti i fondi a disposizione al taglio delle imposte (anche temporaneo, con maggiore effetto immediato), sia sui consumi che sugli investimenti. Si potrebbe inoltre tagliare l’imposta sulle società, creando crediti di imposta per imprese in perdita, che andrebbero a rinforzare il capitale delle stesse. In questo modo, le imprese potrebbero finanziarsi più agevolmente e, soprattutto, non sarebbe lo Stato a decidere chi deve sopravvivere e chi no. Perché, in fin dei conti, il calcolo economico della profittabilità futura può essere fatto solo dalle imprese e da un complesso di attori di mercato che, per effetto della competizione, generano l’informazione necessaria.
Purtroppo, un approccio razionale ha scarse possibilità di ascolto in un Paese, e presso un’opinione pubblica, così intrisi di statalismo provvidenzialista, quanto meno in quelle élite politiche che detengono il potere decisionale e hanno tutto l’interesse ad agire nel senso di una distribuzione di fondi che renda “evidente” il proprio intervento.
Capitolo a parte, poi, sarebbe quello dell’eredità che una manovra fiscale di carattere tanto espansivo lascerà ai cittadini in termini di debito pubblico. A meno che la Banca Centrale Europea non riesca a provocare una fiammata inflazionistica che pagheremmo tutti in termini di impoverimento relativo a beneficio dello Stato, nella sua veste di maggior debitore, non sembra, francamente, che esistano alternative a un default scoperto o mascherato, magari modulato secondo formule quanto si vuole immaginifiche, ma nondimeno default. Degna conclusione di decenni di “democrazia in deficit”, alimentata dalla miscela funesta di interventismo statalista, debito pubblico in aumento, sentiment anti-impresa.