Recovery-Mes: una polizza di assicurazione politica, Italia legata mani e piedi e governo blindato

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Il “Recovery Mes” non serve a rilanciare l’economia, ma a ipotecare il futuro politico del nostro Paese, blindando l’unica formula di governo che offre sufficienti garanzie all’Ue; non aiuterà famiglie e imprese, ma un sistema di potere in crisi di consenso…

Un accordo “storico”. Squillano le trombe delle quinte colonne dell’europeismo: politici e giornali eurolirici rimasti per quattro giorni e quattro notti col fiato sospeso, intenti a rabberciare una narrazione che tra ipocrisie e cortocircuiti cominciava a fare acqua da tutte le parti, ieri si sono lasciati andare a scene di giubilo esagerate, segno che la tensione era davvero alta e il fallimento un’ipotesi concreta e temuta.

Ma quanti accordi “storici” sono stati celebrati in questi anni? Quando si parla di Unione europea ogni accordo viene presentato come “storico”, ma se così veramente fosse, l’Ue non si troverebbe nello stesso limbo in cui versa da oltre un decennio, nell’incapacità di rispondere alle crisi (economiche e migratorie), a tutela del benessere e della sicurezza dei propri cittadini, e di ridurre gli squilibri macroeconomici tra gli stati membri. Questo perché in realtà ha partorito topolini, compromessi al ribasso, accordicchi per salvarsi la faccia, che sempre più mostrano che l’edificio è senza fondamenta, la barca è alla deriva – più i passeggeri si dimenano, più rischia di rovesciarsi, quindi fermi tutti.

Quest’ultimo accordo, per esempio, non può certo essere presentato come un avanzamento dell’idea di Europa comunitaria, tanto meno federalista. La Commissione emetterà obbligazioni, vero, e ci saranno de facto trasferimenti fiscali (da nord a sud), ma in via del tutto eccezionale, è scritto nero su bianco, per rispondere ad uno di quegli eventi che capitano una volta al secolo. Non come scelta strategica né in via sperimentale. E va tenuto presente che se alla fine un accordo è stato raggiunto, è proprio grazie ai “sacrifici” della Commissione, che ha messo sul piatto il defunding di programmi gestiti da Bruxelles per accontentare gli stati nazionali, perché portassero a casa i Paesi mediterranei aiuti diretti, i Frugal Five rebates più corposi che mai.

L’unico vero “successo”, se così si può definire, dell’accordo sul Recovery Fund, è tutto politico. Il programma infatti pone una pesante ipoteca sulla politica economica del nostro Paese per gli anni a venire (spesa, spesa, spesa) e sulla formula di governo chiamata a realizzarla. E rende ancor più evidente, inoltre, come mostrano le dichiarazioni di segno diverso, persino opposto, dei partiti di opposizione, che non esiste una cosa chiamata “centrodestra”.

Ed è questo, in fondo, l’esito cui miravano sia il nostro governo che gli altri leader, Merkel e Rutte in testa: una polizza di assicurazione politica, un programma che potesse legarci mani e piedi. Essendo politicamente impraticabile il Mes anche nella versione “sanitaria”, hanno trasformato il Recovery Fund in un “Recovery Mes”, con condizionalità e “freni d’emergenza” persino più stringenti. Per alcune condizioni avrebbe spinto lo stesso premier Conte.

Si capisce quindi che il Pd gongoli. Potranno avvicendarsi gli alleati a seconda delle circostanze e del contesto politico, ma sarà il Pd l’inevitabile perno, sostanzialmente inamovibile, della compagine di governo che agirà da garante ed esecutrice delle politiche dettate da Bruxelles, necessarie ad assicurarci l’accesso ai fondi e il loro flusso senza intoppi. E se qualcuno proporrà di deviare da quelle politiche – magari per tagliare sul serio le tasse – avranno gioco facile nell’additarlo come irresponsabile che vuole farci perdere i soldi europei… Sarà opera, come d’altra parte è stato a partire dal golpe del 2011, dell’inquilino del Quirinale, in triangolazione con le capitali europee e le pressioni dei media di sinistra – e, se tutto questo non dovesse bastare, della magistratura militante – far sì che la formula di governo si trovi, a prescindere dal responso delle urne, sfruttando la quanto mai opportuna “elasticità” della legge elettorale.

Come spiega Marco Faraci nell’articolo di oggi, “l’Ue ha creato un meccanismo deteriore in cui la classe politica italiana non risponde più dell’efficienza del proprio operato in economia, ma invece, nei fatti, solamente del proprio allineamento ideologico rispetto al verbo ‘unionista’… E ha rappresentato in questi anni un pesante elemento di interferenza nella normale dinamica democratica dei vari Paesi, che in Italia si è materializzato in un significativo vantaggio concesso a tavolino al Pd e ai suoi alleati”.

Ma qual è il meccanismo di condizionalità del Recovery Fund? Per accedere al programma l’Italia dovrà presentare un piano nazionale alla Commissione europea. La condizione preliminare per una valutazione positiva della Commissione è “l’effettivo contributo” del piano alla “transizione verde e digitale”. Ma il punteggio più alto nella valutazione “deve essere ottenuto per quanto riguarda la coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese”, quelle raccomandazioni che annualmente la Commissione detta ad ogni stato membro, ovviamente più o meno cogenti a seconda del rispetto di parametri e impegni presi. Nel caso dell’Italia, com’è noto, innanzitutto la riduzione del rapporto deficit/Pil strutturale e del debito pubblico. Tra le misure “suggerite”, imposte sugli immobili, taglio delle agevolazioni fiscali e delle aliquote Iva ridotte, quindi più tasse. Ma anche contrasto dell’evasione fiscale e della corruzione, riforme delle pensioni, del lavoro, della giustizia. Insomma, le famose “riforme strutturali”.

La valutazione del piano nazionale fatta dalla Commissione dovrà essere approvata dal Consiglio Ue, a maggioranza qualificata. Ed è qui che interviene il cosiddetto “freno d’emergenza” preteso dal primo ministro olandese Rutte. Anche un solo governo potrà deferire al Consiglio europeo il Paese beneficiario dei fondi, se ritiene che non rispetti le condizioni (“gravi scostamenti dai target intermedi e finali”), chiedendo al presidente del Consiglio europeo di rinviare l’esame della questione al successivo vertice. D’accordo, non un vero e proprio diritto di veto, ma il potere di ritardare e intralciare il processo di erogazione dei fondi, quindi una potente arma di condizionamento politico.

Ma nemmeno l’approvazione del piano garantirà l’erogazione di tutti i fondi. Nelle conclusioni del vertice, infatti, si precisa che i piani “saranno riesaminati e adattati, ove necessario, nel 2022 per tenere conto della ripartizione definitiva dei fondi per il 2023”. Il 30 per cento dei fondi che dovrà essere impiegato entro il 2023 potrebbe essere vincolato ad una revisione del piano: ulteriori condizioni.

E badate bene, queste “condizioni” non impediranno ai nostri governi di sperperare i soldi, né ci garantiranno buone riforme, come s’illude qualche liberale, perché lo spreco è insito nella logica stessa, dirigista, dello strumento.

In tutto questo, l’aspetto macroeconomico passa in secondo piano. Il Recovery Fund è inutile (se non dannoso) allo scopo per cui è stato inizialmente concepito, il rilancio delle economie europee pesantemente colpite dalla pandemia. Primo, tempi troppo diluiti: i primi grants dovrebbero arrivare a primavera inoltrata del 2021, il 70 per cento dei fondi dovrà essere impegnato nel 2021-2022, il restante 30 entro la fine del 2023, quindi parliamo di un orizzonte di erogazione, se va bene, di quattro anni (2021-2024), ma il programma sarà attivo fino al 2026.

Secondo, entità modesta: circa 80 miliardi, secondo le stime (ottimistiche) del governo, i sussidi a fondo perduto a cui avrebbe diritto l’Italia, ma parliamo di cifre lorde, perché dovremo versare maggiori contributi, dal 2026 (per una trentina d’anni) per rimborsare le obbligazioni del RF e da subito nel bilancio pluriennale per compensare gli aumenti dei rebates concessi ai “frugali”. Maggiori contributi sia in forma diretta che indiretta: nuove imposte Ue come plastic tax, digital tax, carbon tax, tassa sulle transazioni finanziarie e via discorrendo… Uno dei paradossi dell’accordo sul Recovery Fund è che ad arrivare per prima, dal 1° gennaio 2021, sarà una nuova tassa, la plastic tax, non saranno né i grants né i loans. Silvia Merler, a capo della ricerca di Algebris Policy & Research Forum, calcola in 50 miliardi la maggiore contribuzione che verrebbe richiesta all’Italia, per un trasferimento netto (80 meno 50) di 30 miliardi, all’incirca l’equivalente o poco più di 7 anni dei nostri contributi netti al bilancio Ue. Quello che ci verrebbe concesso, in pratica, è di tornare ad essere beneficiari netti del bilancio Ue per una manciata di miliardi. Pur ipotizzando 40 miliardi, al netto della maggiore contribuzione e sempre ammesso di saperli spendere, 10 l’anno non sono nemmeno un punto di Pil, a fronte di un -12 per cento stimato per quest’anno.

Terzo, la logica è troppo simile a quella deteriore del bilancio pluriennale Ue: il vincolo di destinazione dei fondi, che si potranno utilizzare per investimenti ideologicamente orientati (green e digitale), non certo per tagliare le tasse. La ricetta più efficace, di più semplice e rapida esecuzione, sarebbe stata quella di lasciare più soldi nelle tasche delle vere vittime di questa crisi, cittadini e imprese, e lasciare che fossero loro a decidere dove indirizzarli. Al contrario, ci ritroviamo con una quota extra del già inefficiente bilancio Ue.

Vogliamo scommettere che l’effetto del Recovery Fund sull’economia italiana sarà impercettibile? Che ci ritroveremo con una crescita del Pil anemica, sempre che torneremo a crescere? Ve lo ricordate il piano Juncker da centinaia di miliardi? Chi l’ha visto?

Dal punto di vista economico, bisognava mitigare in tempi rapidi i danni del lockdown – che in Italia, il Paese che meno di tutti poteva permetterselo, è stato il più severo e prolungato tra i Paesi avanzati. Ciò che serviva, e serviva subito, erano indennizzi e moratorie fiscali. E infatti è esattamente ciò che hanno fatto i Paesi che se lo potevano permettere, cioè che avevano margini di bilancio e/o sovranità monetaria. Avremmo potuto e dovuto provarci anche noi, emettendo titoli di debito a lunga scadenza, potendo contare proprio in quelle settimane sull’ombrello Bce – su cui non possiamo essere certi di poter contare ancora a settembre.

Il governo Conte ha puntato, invece, su prestiti e sussidi europei: pochi, in ritardo e pesantemente condizionati. Perseguendo, a nostro parere, un obiettivo prevalentemente politico: ha sfruttato la crisi economica da Covid per accrescere la nostra dipendenza dall’Ue, blindando in questo modo l’unica formula di governo che offre sufficienti garanzie a Bruxelles, a Berlino e a Parigi. Impegnare il Paese e i futuri governi in un piano di investimenti e riforme deciso da una casta di burocrati non serve a rilanciare l’economia ma a mettere sotto tutela l’Italia; non aiuterà famiglie e imprese a recuperare il reddito perduto a causa della pandemia, ma aiuterà un sistema di potere in crisi di consenso a resistere.

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