Come ampiamente previsto, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum elettorale avanzata da ben otto Consigli regionali, a guida Lega e centrodestra, che mirava ad abrogare la quota proporzionale dell’attuale legge per l’elezione della Camera e del Senato passando quindi ad un sistema maggioritario di soli collegi uninominali.
In attesa di leggere le motivazioni, la bocciatura, così come sommariamente spiegata dal comunicato diffuso dall’ufficio stampa della Consulta, sembra confermare, purtroppo, che ormai la materia elettorale è preclusa al voto referendario dei cittadini, in violazione de facto della Costituzione, che specifica molto chiaramente le uniche leggi che non si possono sottoporre a referendum abrogativo (“le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”).
L’effetto del combinato disposto delle sentenze della Consulta che si sono susseguite negli ultimi trent’anni è di aver reso difficilissimo, pressoché impossibile, l’ammissibilità di un referendum elettorale, ampliando a tal punto la discrezionalità dei giudici costituzionali da farla coincidere con una vera e propria arbitrarietà politica. Nessun quesito può scampare alla giurisprudenza che negli anni la Corte ha messo in piedi per lasciarsi mani libere e, di fatto, impedire che siano i cittadini a indicare quale sistema elettorale preferiscono.
Quanto sia infernale questo dispositivo emerge dallo stesso comunicato della Consulta, in cui si ribadisce come l’autoapplicatività della “normativa di risulta” sia “richiesta dalla costante giurisprudenza costituzionale come condizione di ammissibilità dei referendum in materia elettorale”. Non può esserci “vuoto” in questa materia, quindi la normativa che deriverebbe dall’abrogazione referendaria dev’essere immediatamente applicabile, dicono le sentenze della Corte. È per garantire tale autoapplicatività che i promotori hanno dovuto proporre un quesito manipolativo, in questo caso di una legge delega, come si legge nella nota diffusa ieri pomeriggio.
Per garantire l’autoapplicatività della “normativa di risulta” – richiesta dalla costante giurisprudenza costituzionale come condizione di ammissibilità dei referendum in materia elettorale – il quesito investiva anche la delega conferita al Governo con la legge n. 51/2019 per la ridefinizione dei collegi in attuazione della riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari.
Da questo passaggio si evince che per la Corte, senza un intervento sulla ridefinizione dei collegi, la “normativa di risulta” non sarebbe stata autoapplicativa. Allo stesso tempo, però, questo intervento sulla succitata legge delega rende il quesito inammissibile perché eccessivamente manipolativo:
La richiesta è stata dichiarata inammissibile per l’assorbente ragione dell’eccessiva manipolatività del quesito referendario nella parte che riguarda la delega al Governo, ovvero proprio nella parte che, secondo le intenzioni dei promotori, avrebbe consentito l’autoapplicatività della “normativa di risulta”.
Ma sembra di capire che se i promotori non avessero fatto riferimento alla legge delega, la Corte l’avrebbe dichiarata comunque inammissibile, perché a quel punto la “normativa di risulta” non sarebbe stata immediatamente applicabile, mancando dei collegi. E qui segnaliamo un’altra forzatura: siamo al punto che l’horror vacui della Consulta in materia di leggi elettorali comprende persino la definizione dei collegi. Non solo non si può stare senza una legge elettorale, ma nemmeno senza una predefinita mappa dei collegi. Ma come risulta evidente, sulla base di tali presupposti non potrà mai essere ammissibile la richiesta di abrogazione di una legge elettorale, o parte di essa, che implichi la necessità di una ridefinizione dei collegi. Dunque, zero chance di uninominale. Anche tornare al Mattarellum sarebbe impossibile, non potendo risuscitare per via referendaria i medesimi collegi.
Insomma, non se ne esce. Dovendo soddisfare la richiesta che i referendum elettorali non determinino vuoti normativi, i quesiti non possono che essere “manipolativi”. Ma a questo punto, a suo insindacabile giudizio la Corte può decidere che lo sono eccessivamente, e quindi dichiararli inammissibili, come ha deciso oggi. Non importa quanto tutto ciò sia pretestuoso, è uno scacco matto al referendum, e ai cittadini, che si vedono sottratta – almeno in materia elettorale – una delle due schede di voto che i costituenti avevano consegnato loro.
La lezione che possiamo trarne, in conclusione, è che i quesiti referendari non possono essere “manipolativi”, ma i giudici della Consulta possono manipolare la Costituzione a loro piacimento e convenienza politica…
Tutto questo dovrebbe almeno rendere chiaro non solo alla Lega ma anche agli altri partiti di centrodestra che se vogliono davvero cambiare questo Paese – da una legge elettorale in senso maggioritario alle politiche sull’immigrazione, passando per la giustizia, solo per fare degli esempi – la via è obbligata: conquistare il Quirinale e mutare gli equilibri interni alla Corte costituzionale. E non ci sono scorciatoie: serve una maggioranza parlamentare abbastanza ampia e coesa da poter a) eleggere autonomamente il prossimo presidente della Repubblica; oppure b) introdurre l’elezione diretta del capo dello Stato. Ed in modo spietato, con disciplina quasi militare, senza compromessi né concessioni all’establishment catto-progressista, che da tre decenni, in un modo o nell’altro, potendo contare anche sull’ingenuità e i complessi di inferiorità degli avversari, quando non sul ricatto giudiziario puro e semplice, è sempre riuscito a controllare sia il Colle che la Consulta pur con un consenso minimo elettorale e nel Paese.