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Riecco la patrimoniale: chi la propone e perché sarebbe un disastro

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Usare la crisi per giustificare nuove aree di intervento del governo è, lo sappiamo, uno dei tratti comuni dell’affermarsi di nuovi totalitarismi. La crisi sanitaria ed economica causata dal coronavirus non fa eccezione, anzi sembra che il “bisogno di dare risposte” giustificherà atti arbitrari e coercizione statale fino ad un punto che in pochi, all’inizio di questo dramma, avrebbero potuto immaginare. Uno degli esempi più lampanti è la proposta di una tassa patrimoniale che sarebbe “necessaria” per combattere la crisi: a suggerirci questo “toccasana” è il “moderato” Pier Ferdinando Casini, che si dice addirittura disposto a pagarla in prima persona. Ora, a parte il fatto che, disposta o meno che sia la persona, la tassa le viene estorta dallo Stato proprio come a tutti gli altri, non vediamo perché il fatto che Casini voglia dare più soldi al baraccone statale debba far sì che siano obbligati tutti quanti a fare lo stesso. Questo la dice lunga sul “moderatismo” di certi personaggi: è assolutamente legittimo avere una certa idea su come dovrebbero essere spesi i soldi, non è legittimo però pretendere che tutti siano d’accordo e che tutti vengano obbligati con la coercizione a versare per il proprio capriccio. Queste ventate di statalismo, che nonostante la nota storia centrista di Casini odorano di vetero-marxismo, sono da ritenersi assolutamente pericolose.

Lo Stato nei momenti di crisi tende ad allargare i propri confini, a trovare nuove aree di intervento, e terminata la crisi le cose non tornano quasi mai come prima: o gli uomini di governo non rinunciano al potere acquisito, oppure hanno reso dipendente dall’azione governativa il settore produttivo, tenendo in vita soggetti economici inefficienti che poi nemmeno in tempo di relativa crescita si dimostrano capaci di stare le mercato. Il caso della patrimoniale è proprio quello di un intervento statale che, una volta introdotto, sarebbe troppo difficile rimuovere, e ci deve indignare per un semplice motivo: i sacrifici che lo Stato richiede al settore privato non è in grado di applicarli a se stesso e alla propria classe “digerente” (“dirigente” suonerebbe troppo ottimistico nel nostro Paese) tagliando e rivedendo totalmente la spesa pubblica. Una situazione di crisi come questa richiederebbe una revisione totale delle uscite: verificare cosa c’è di produttivo e cosa è inutile (un’inutilità su tutte è il reddito di cittadinanza) e tagliare seriamente gli sprechi. Solo così si potranno abbassare le tasse senza fare troppo debito condannando governi futuri a mettere le pezze agli errori del passato. Il debito italiano, già fin troppo alto per un Paese che non cresce e che rischia ogni giorno la propria sovranità data la situazione debitoria assurda, rischia di esplodere, e se non si agirà in modo intelligente ne sentiremo le ripercussioni per anni.

Ancora una volta, però, la risposta non può venire dallo Stato, che è tra le cause indirette della crisi economica con il suo interventismo e la sua allocazione arbitraria e inefficiente delle risorse. L’unica cosa che lo Stato può concretamente fare, per affrontare questa emergenza, è farsi da parte: il settore privato con le sue eccellenze, se lasciato libero, sarà il motore della rinascita. Mettere le mani in tasca ai cittadini, che in molti casi a causa della crisi dovranno attingere ai propri risparmi per vivere e che si vedranno questi risparmi ulteriormente tassati, è sicuramente il modo migliore per distruggere la speranza, far montare la rabbia e, in ultima analisi, far durare la crisi più a lungo. Sappiamo che la politica italiana preferisce oggi modelli come quello del regime comunista cinese, ma la patrimoniale non può e non deve essere la nostra risposta al virus: le persone hanno bisogno di speranza, e la speranza nasce con la libertà.