Il 27 maggio scorso l’ambasciatore cinese a Beirut, Wang Kejian, e il ministro della cultura libanese, Abbas Mortada, hanno firmato l’accordo per la cooperazione culturale tra Cina e Libano, che vedrà anche nella capitale del Paese dei Cedri una forte espansione degli Istituti Confucio e del soft power di Pechino, con la prospettiva di ampliare, se possibile, i rapporti economici tra i due Paesi. La Cina è da anni interessata a una ulteriore penetrazione in Libano, storica porta commerciale dell’Occidente nel Medio Oriente, e vorrebbe inquadrare il Paese nella Belt and Road Initiative – la nuova Via della Seta – facendo risorgere le sue infrastrutture interne lungo l’asse Beirut-Tripoli sulla costa Mediterranea libanese, fino ad arrivare alle città siriane di Homs e Damasco, ormai distrutte dalla guerra civile in atto nel Paese dal 2011.
Nel marzo scorso il premier libanese Hassan Diab ha annunciato che il Paese non avrebbe rimborsato 1,2 miliardi di dollari di obbligazioni emesse in valuta estera. Si trattava, in parole semplici, del default del Paese, gravato da anni di crisi economica e stallo politico. Già dall’ottobre 2019 i libanesi avevano iniziato a scendere per le strade e occupare i luoghi simbolici del potere e della storia del loro Paese – come la Piazza dei Martiri di Beirut – non potendo più tollerare i rincari del cibo, i tagli alla linea elettrica e la corruzione che fa del Libano uno degli stati meno trasparenti del mondo secondo il rapporto di Transparency International.
È stato subito chiaro che il Paese non avrebbe potuto farcela senza ottenere un prestito – 10 miliardi di dollari – dal Fondo monetario internazionale (FMI). Ma qui la politica – uscita di scena con le dimissioni di Saad Hariri e la nascita di un esecutivo tecnico dopo le proteste – è tornata a farsi sentire. Hassan Nasrallah, il segretario di Hezbollah, il “Partito di Dio” filo-iraniano che nel corso degli anni ha conquistato un enorme potere in Libano e presso tutti gli sciiti del Medio Oriente, ha sorpreso molte persone dichiarando che “il Libano deve guardare alla Cina per gli aiuti economici e non al FMI di cui gli Stati Uniti sono il contribuente principale”. Le dichiarazioni di Nasrallah hanno provocato un terremoto. Il Libano da sempre è un avamposto della cultura occidentale in Medio Oriente: prima la Francia e poi gli Stati Uniti hanno impresso, nel bene e nel male, il loro marchio sulla società libanese.
Più in generale però, le proteste dello scorso ottobre hanno dimostrato una cosa: i libanesi che sono scesi in piazza per la prima volta sventolando la loro bandiera nazionale sono stufi di essere considerati una “sfera di influenza” delle grandi potenze nel complesso scacchiere della geopolitica mondiale. I manifestanti che chiedevano più giustizia sociale e più libertà se la sono presa anche con Hezbollah e non hanno temuto la repressione delle spedizioni punitive ordinate da Nasrallah alle sue milizie per soffocare le rivolte.
Dopo gli accordi di Ta’if del 1989 il Libano è stato di fatto annesso alla Siria di Assad con il beneplacito delle potenze occidentali e dei vari leader e capi-bastone della guerra civile che ha letteralmente distrutto il Paese dal 1975 al 1990. Alcuni di loro hanno ancora una posizione centrale nella vita politica libanese e nel patronage system che la sorregge: basti pensare alla famiglia Jumblatt all’interno della comunità drusa; a Samir Geagea, combattente e leader delle milizie cristiano-maronite di Kataeb e poi fondatore delle Forces Libanaises; al ruolo decisivo della famiglia sunnita degli Hariri nella ricostruzione post-guerra e nel tessere rapporti con le élites politico-finanziarie francesi e americane. La parcellizzazione della società libanese in comunità su basi etnico-religiose – più religiose per la verità – è il tratto saliente della storia del Libano, ed è sancita dal 1943, anno della fine del mandato francese e della proclamazione della Repubblica.
Il crollo dei salari e della lira libanese – passata in poche settimane al tasso di cambio di 1.500 dollari per lira a 8 mila dollari – e la triplicazione del prezzo delle commodities hanno palesato definitivamente tutta l’inadeguatezza di un sistema settario che indebolisce dall’interno l’unità dello Stato libanese e lo rende esposto alle influenze esterne.
Così, la Cina cerca di inserirsi in questo vuoto di potere e nella crisi drammatica che sembra non avere fine. Gli scontri politici hanno portato alle dimissioni Alain Bifani, il capo negoziatore libanese presso il FMI: le élites finanziarie del Paese non vogliono pagare il conto del default e la politica non parla con una voce sola. Le trattative tra Beirut e il Fondo si sono arenate definitivamente. Hezbollah accusa gli Usa di favorire il grande capitale finanziario e di impoverire il Libano imponendo sanzioni draconiane alla confinante Siria. Pechino invece lavora per sostituire Washington: la Cina ha già fornito al Libano aiuti militari nel conflitto con Israele del 2006; il 40 per cento delle importazioni nella Terra dei Cedri è di origine cinese; durante il picco del coronavirus i rapporti tra i due Paesi si sono intensificati: i kit per i tamponi sono arrivati a Beirut su consegna espressa del governo di Pechino. Quanti però nel Libano secolarizzato e liberale saranno disposti a vedere dopo un Libano “americanizzato” un Libano “cinesizzato”?