A Roma, negli spazi del Complesso del Vittoriano-Ala Brasini, è stata inaugurata un’esposizione interamente dedicata al mito di Warhol, realizzata in occasione del novantesimo anniversario della sua nascita. Una mostra visibile fino al 3 febbraio del prossimo anno. Sotto l’egida dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano e con il patrocinio della Regione Lazio e di Roma Capitale – Assessorato alla Crescita Culturale, la rassegna Andy Warhol è prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia in collaborazione con Eugenio Falcioni & Art Motors srl e curata da Matteo Bellenghi.
E’ una mostra che permette di conoscere le origini artistiche della Pop Art: nel 1962 il genio di Pittsburgh inizia a usare la serigrafia e crea la serie Campbell’s Soup, minestre in scatola che Warhol prende dagli scaffali dei supermercati per consegnarli all’Olimpo dell’arte. Seguono le serie su Elvis, su Marilyn, sulla Coca-Cola. A colpire Warhol sono quegli oggetti che abbattono il divario tra ricchi e poveri: quello che chiunque si può permettere e, per quanto sia enorme il potere d’acquisto di un milionario, la sua bottiglietta non sarà più buona di quella di un altro. È in questi anni che comincia a dire che ognuno ha diritto a 15 minuti di celebrità, quella celebrità da cui è ossessionato da sempre e di cui nel percorso espositivo non mancano le testimonianze. Warhol diventa in quegli anni il centro catalizzatore della cultura newyorchese, frequenta i locali più ambiti del momento, come lo Studio 54 o il Max’s Kansas City dove si fa fotografare, tra gli altri, con Liza Minnelli, Debbie Harry, Paloma Picasso, Truman Capote.
Nel ‘63 si trasferisce a lavorare in uno studio sulla quarantasettesima est, etichettato in breve tempo “Silver Factory”, la fabbrica d’argento, per l’aspetto che Billy Name – fotografo e grande amico di Warhol – riuscì a darne riempiendo i muri di carta stagnola. Come si può vedere, grazie alle numerose opere in mostra, i frequentatori della Factory erano moltissimi: Bob Dylan, Truman Capote, John Lennon, Mick Jagger, Jack Kerouac, Salvador Dalì, Tennessee Williams, Rudolf Nureyev, Montgomery Clift. Chiunque poteva entrare nel magico mondo di Andy. I ritratti di alcuni di loro spiccano sulle pareti del Vittoriano, così come le copertine deglialbum realizzate da Warhol raffiguranti immagini e simboli passati alla storia come la banana di The Velvet Underground & Nico del 1967, i jeans di Sticky Fingers (1971) dei Rolling Stones e molte altre.
Nel 1969 fonda Interview, un magazine interamente dedicato alle celebrità, forse l’unica vera, grande fissazione di Warhol. Dipinge incessantemente nella metà degli anni ’70, usando come base le polaroid scattate dai tanti personaggi che continuano a popolare la Factory: Liz Taylor, Sylvester Stallone, John Wayne, Liza Minnelli, Valentino, Armani, Caroline di Monaco e Michael Jackson. Sono gli anni ’70 e ’80 a incoronarlo come il più prolifico e noto artista vivente, un’icona dalla vita straordinaria, tra i più grandi rivoluzionari del linguaggio artistico e culturale di tutti i tempi. Nel pieno della fama e della popolarità, il 22 febbraio del 1987 Warhol muore sotto i ferri di una semplicissima operazione alla cistifellea, lasciando il mondo orfano di un personaggio che, come pochi altri, ha cambiato il corso della storia. Un artista che diceva di non volersi occupare di politica, ma che condizionava le masse, e che sosteneva di non ricercare alcun messaggio impegnato nelle sue opere, ma che intercettava la concezione moderna del pensiero.