Del tutto ignorato da giornaloni e giornalini, martedì scorso il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha pronunciato un discorso molto importante al German Marshall Fund. Pompeo era a Bruxelles per partecipare al vertice ministeriale Nato che ha sancito la “violazione concreta” da parte russa dell’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty, il Trattato sulle forze nucleari a medio raggio firmato nel 1987, chiedendo a Mosca di “tornare con urgenza al suo pieno e verificabile rispetto”. E il segretario di Stato Usa ha in pratica dato alla Russia 60 giorni di tempo per tornare a rispettarlo, altrimenti gli Stati Uniti si riterranno anch’essi svincolati dagli obblighi previsti.
Ma il discorso di Pompeo ha una portata molto più vasta. Non solo chiarisce le linee guida della politica estera dell’amministrazione Trump – e i molti che hanno creduto o ancora credono che il presidente si muova a casaccio farebbero bene a studiarselo – ma esprime anche una visione, se non si vuole chiamarla “dottrina”, che molto probabilmente sopravviverà, almeno nel campo Repubblicano, al personaggio Trump. I presidenti passano, le idee (soprattutto di politica estera) e le sfide geopolitiche restano.
Su Atlantico, sia in questa versione online, sia nell’edizione cartacea (in particolare, nel numero della scorsa estate), non facciamo che ripeterlo da tempo: è arrivato il momento che l’Europa prenda sul serio il presidente Trump, anche perché ammesso e non concesso che nel 2020 debba lasciare la Casa Bianca, portando con sé le asperità del suo carattere e alcune sue politiche, le preoccupazioni e le questioni geopolitiche di fondo poste da Pompeo siamo convinti siano destinate a restare e, anzi, a farsi sempre più pressanti a Washington.
Nel suo intervento, dal titolo “Restoring the Role of the Nation-State in the Liberal International Order”, Pompeo ha ricordato che l’ordine internazionale edificato dopo la Seconda Guerra Mondiale si fonda sul ruolo degli stati-nazione e che è necessario ristabilire tale ruolo, oggi messo in discussione, se vogliamo che l’edificio resti in piedi e continui a svolgere i compiti per i quali è stato concepito. Il ruolo dello stato-nazione non è affatto in contraddizione con l’ordine internazionale liberale, cosa che invece oggi si tende a dare quasi per scontata. Al contrario, le “nazioni sovrane” sono gli insostituibili mattoni di questo edificio, perché è in esse che i popoli, riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, si riconoscono, mentre l’umanità è un concetto troppo ampio e diverso per dar vita a una identità universale. E a questo proposito Pompeo ha citato uno dei principali architetti di questo ordine, George Marshall, il suo predecessore, segretario di Stato Usa dal 1947 al 1949, che già nel 1948 avvertì: “Le organizzazioni internazionali non possono prendere il posto di sforzi nazionali e personali, o dell’immaginazione locale e individuale; l’azione internazionale non può sostituire il fare da sé”.
“Gli uomini che hanno ricostruito la civiltà occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale – ha ricordato ancora Pompeo – erano consapevoli che solo una forte leadership degli Stati Uniti, di concerto con i nostri amici e alleati, avrebbe potuto unire le nazioni sovrane del mondo”. E così sono state create nuove istituzioni, “per ricostruire l’Europa e il Giappone, stabilizzare le monete, facilitare il commercio”. “Abbiamo co-fondato la Nato per garantire la sicurezza, nostra e dei nostri alleati” e codificato in trattati i “valori occidentali di libertà e diritti umani”. La leadership americana, ha sottolineato, “ci ha permesso di godere della più grande prosperità umana nella storia moderna”. “Abbiamo vinto la Guerra Fredda. Abbiamo vinto la pace… riunificato la Germania. Questo è il genere di leadership che il presidente Trump sta riaffermando con forza”.
Il problema è che dalla fine della Guerra Fredda, “abbiamo permesso che questo ordine liberale iniziasse a corrompersi”. “Il multilateralismo è stato troppo spesso visto come fine a se stesso. Più trattati firmiamo, più pensiamo di essere al sicuro. Più burocrati abbiamo, migliore il lavoro che viene fatto. Ma è mai stato veramente così?”, si è chiesto Pompeo. La domanda da porsi è se questo sistema, così com’è oggi, funzioni. Il segretario di Stato Usa ha quindi ricordato i fallimenti dell’Onu, le molte iniziative e prese di posizione in contrasto con la sua missione originaria. Ma anche le contraddizioni delle istituzioni economiche internazionali: “La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale furono fondati per aiutare a ricostruire i territori devastati dalla guerra e promuovere l’investimento privato e la crescita. Oggi, queste istituzioni spesso raccomandano ai Paesi che hanno gestito male la propria economia di imporre misure di austerità che reprimono la crescita e riducono lo spazio del settore privato”.
Ed è poi venuto all’Unione europea e alla sua nota dolente: Brexit, un “campanello d’allarme politico”. “L’Ue si sta assicurando che gli interessi dei Paesi e dei cittadini siano posti prima di quelli dei burocrati qui a Bruxelles?”. Sembra di no, almeno così la pensa una parte crescente di cittadini europei.
Insomma, è come se le istituzioni che hanno contribuito a plasmare l’ordine internazionale del Dopoguerra abbiano cominciato a prendere vita propria, allontanandosi dalle finalità e dai principi originari, dagli interessi delle nazioni da cui traggono la loro legittimazione. I cittadini delle democrazie liberali, sia in Europa che negli Stati Uniti, avvertono questo allontanamento, la mancanza di accountability di queste istituzioni, mentre per quanto criticabili, impopolari e detestati, i governi nazionali sono chiamati a rispondere delle loro politiche, nei loro confronti gli elettori conservano l’arma del voto. Da qui una profonda crisi di legittimità del multilateralismo, da cui stanno traendo vantaggio i regimi avversari dell’Occidente, i cui popoli non hanno mai sperimentato cosa sia il controllo democratico, o non ne hanno il ricordo.
Il segretario di Stato ha in particolare citato Cina, Iran e Russia. Lo sviluppo economico non ha portato Pechino ad “abbracciare la democrazia”, né alla “stabilità regionale”, ma “ha portato più repressione politica e provocazioni regionali”. “Abbiamo accolto la Cina nell’ordine liberale, ma mai vigilato sul suo comportamento”. E così Pechino “ha puntualmente sfruttato le scappatoie nelle regole del Wto, imposto restrizioni al mercato, forzato trasferimenti di tecnologia, rubato proprietà intellettuale. E sa che l’opinione pubblica mondiale non ha il potere di fermare le sue orwelliane violazioni dei diritti umani”. Di Iran e Russia Pompeo ha ricordato le aggressioni e le violazioni del diritto internazionale.
Bisogna chiedersi se l’attuale ordine internazionale sia al servizio dei cittadini e, in caso contrario, come possiamo aggiustarlo. C’è il rischio concreto infatti che l’inerzia di oggi non sia più funzionale non solo agli interessi Usa, ma nemmeno agli interessi delle democrazie occidentali, anzi che stia premiando i loro rivali. Questo sta accadendo perché per troppo tempo l’America e i suoi alleati hanno allentato la presa, non esercitato o esercitato male la loro leadership, e i “bad actors”, le potenze autoritarie – Cina e Russia in testa – ne hanno approfittato per avanzare i loro interessi, elevare il loro status e promuovere il loro modello illiberale. È il “frutto avvelenato del ritiro americano”, ma il presidente Trump è determinato a invertire la rotta, assicura Pompeo.
“Questo è ciò che il presidente Trump sta facendo. Sta riportando gli Stati Uniti al loro tradizionale, centrale ruolo di leadership”. Trump “vede il mondo com’è, non come vorremmo che fosse. È consapevole che nulla può sostituire lo stato-nazione come garante delle libertà democratiche e degli interessi nazionali”.
Pompeo avverte quindi che si sbagliano quanti (anche tra gli alleati europei) vedono nel presidente americano la principale minaccia all’ordine liberale. “I suoi critici, in posti come Iran e Cina – Paesi che stanno realmente minando l’ordine internazionale – dicono che sia proprio Trump la causa della crisi di questo sistema. Sostengono che l’America stia agendo in modo unilaterale anziché multilaterale, come se ogni tipo di azione multilaterale sia per definizione desiderabile. Anche i nostri amici europei a volte dicono che non stiamo agendo nell’interesse del mondo. Ma questo è semplicemente sbagliato”.
Trump non vuole liquidare l’ordine internazionale e le sue istituzioni, ma riformarlo, prima che siano gli avversari dell’Occidente a farlo a proprio vantaggio. “La nostra missione è riaffermare la nostra sovranità, riformare l’ordine internazionale liberale, e vogliamo che i nostri amici ci aiutino e che esercitino la loro sovranità. Aspiriamo a fare in modo che l’ordine internazionale sia al servizio dei nostri cittadini, non che li controlli. Con il presidente Trump non stiamo abbandonando la nostra leadership internazionale o i nostri amici. Tutt’altro”.
Ma cosa significa “riformare” l’ordine internazionale liberale? Vuol dire che “gli organismi internazionali devono aiutare a facilitare una cooperazione che rafforzi la sicurezza e i valori del mondo libero, altrimenti devono essere riformati o eliminati”. Che “quando i trattati vengono violati, i trasgressori devono essere affrontati, e i trattati corretti o eliminati”. Ed è esattamente ciò che Washington sta facendo, dall’accordo sul programma nucleare iraniano al trattato INF violato dalla Russia, per non parlare delle regole del Wto violate o aggirate dalla Cina. L’amministrazione Usa “sta uscendo da, o rinegoziando trattati datati o dannosi, accordi commerciali e altre intese internazionali che non servono i nostri interessi sovrani, o gli interessi dei nostri alleati”.
“Il presidente Trump non sta indebolendo queste istituzioni, né sta abbandonando la leadership americana”, ribadisce Pompeo. “Al contrario, come nelle migliori tradizioni della nostra grande democrazia, stiamo radunando le nobili nazioni del mondo per costruire un nuovo ordine liberale. Come la generazione di George Marshall diede vita a una nuova visione per un mondo sicuro e libero, così chiediamo a voi di avere lo stesso coraggio”. “Il nostro appello – avverte il segretario di Stato – è particolarmente urgente, alla luce delle minacce che abbiamo di fronte da potenti Paesi e attori la cui ambizione è rimodellare l’ordine internazionale sulla propria immagine illiberale”.
“Lavoriamo insieme – prosegue nel suo appello Pompeo – per preservare il mondo libero in modo che continui a servire gli interessi dei popoli davanti ai quali siamo tutti responsabili. E facciamolo in modo da dar vita a organizzazioni internazionali agili, che rispettino la sovranità nazionale, che adempiano alle loro missioni dichiarate, e che generino valore per l’ordine liberale e il mondo”. Il presidente Trump sa bene che “quando l’America guida, pace e prosperità quasi certamente seguono; se l’America e i suoi alleati in Europa non guidano, altri decideranno di farlo”.
Attenzione, è quindi il messaggio del segretario di Stato Usa, che nelle capitali europee dovrebbe essere preso molto sul serio: vi state sbagliando, non è Trump la minaccia all’ordine liberale, non vi state accorgendo che il nostro ordine viene sfidato da tempo, che lo stanno progressivamente rimodellando a loro favore le potenze autoritarie, sfruttando la nostra debolezza, la nostra miopia e le nostre divisioni. Ritenere che si tratti di una questione di lana caprina, una delle stravaganze di Trump, sarebbe un tragico errore.
Come risponde l’Europa a guida tedesca all’appello che giunge da Washington? Come si pone davanti alla rivalità del XXI secolo tra Stati Uniti e Cina, cioè tra i due diversi modelli di capitalismo, democratico e liberale il primo e autoritario il secondo? Intende davvero emanciparsi dall’ombrello americano, sganciarsi dall’ormeggio transatlantico, “fare da sola”, giocare la propria partita geopolitica, come lasciano intendere certe dichiarazioni e gli annunci di un esercito europeo, inseguendo il sogno di una equidistanza tra Washington e Pechino che rischia di rivelarsi una pericolosa illusione, consegnandoci fatalmente nelle braccia di Cina e Russia? La posta in gioco è alta.
Un disaccordo sostanziale allontana le due sponde dell’Atlantico e non è dovuto solo alla personalità dell’attuale inquilino della Casa Bianca o al multilateralismo come fine o metodo. L’incomprensione tra americani ed europei è più profonda e riguarda la visione stessa del mondo e, quindi, le priorità di politica estera. Essenzialmente l’Europa vede un mondo afflitto sì da molte tensioni e problemi, ma senza più minacce esistenziali per le democrazie liberali, una sorta di ingenua bolla gonfiatasi a partire dalla tesi di Fukuyama della fine della storia, per cui le principali sfide agli occhi degli europei sono i cambiamenti climatici e i rapporti commerciali, ma non c’è ragione di arrivare a mettere in discussione il quieto vivere con Pechino o Teheran. Avvertono come un fastidio, quindi, come molesta l’offensiva di Trump e il “disordine” che provoca nello status quo. Dove gli europei vedono dispute commerciali risolvibili senza dare scossoni al sistema multilaterale, gli americani vedono una competizione di natura strategica. Ma la Cina non rappresenta una minaccia geopolitica e militare solo per gli Stati Uniti e i suoi alleati in Asia. Altro che Trump, è Pechino alla testa di una più ampia sfida delle potenze autoritarie, revisioniste, all’ordine internazionale liberale.