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Robot Tax, una tassa (che fa male) come le altre

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In campagna elettorale, Salvini ha dichiarato di essere favorevole alla c.d. tassa sui robot, che andrebbe utilizzata “a difesa del lavoro”. Della stessa opinione sarebbe il M5S, promotore del reddito di cittadinanza. A breve potrebbe nascere l’intesa su un una nuova proposta altamente rischiosa per le imprese italiane, vediamo perché.

Luddismo di ritorno. Dalla fine del XVIII secolo, in seguito ad ogni rivoluzione industriale e tecnologica, c’è sempre chi grida alla catastrofe occupazionale e ad altre sciagure economiche. Per fortuna, la storia ci ha sempre dimostrato che avviene l’esatto contrario di quanto fu sbandierato in maniera nefasta dai luddisti. A quanto pare, la vera tragedia è sempre quella che deve ancora venire, però noi l’attendiamo con calma. Se l’atteggiamento attendista è però da sempre quello preferito dall’osservatore, non si può dire certamente lo stesso per il legislatore, il quale dovrebbe prepararsi in anticipo per quella che potremmo definire la corsa più importante della nostra società: la corsa verso lo sviluppo, in cui la tecnica corre molto più veloce del diritto.
Bill, tu quoque? “Se un uomo guadagna 50 mila dollari all’anno lavorando in una fabbrica, deve pagare le imposte. Se un robot svolge gli stessi compiti, dovrebbe essere tassato allo stesso livello”. Fu questa la proposta choc che Bill Gates lanciò l’anno scorso, quella di un fisco maggiormente aggressivo sia per le imprese che costruiscono robot, sia per quelle che sostituiscono con le macchine gli esseri umani nel processo produttivo. Ma come, proprio il fondatore di Microsoft, icona mondiale del progresso tecnologico e dell’informatizzazione, vorrebbe introdurre una tassa sui robot? Forse si è sentito in colpa per aver creato il PC e il suo celeberrimo Office pack? Però, anche qui, se dovessimo pensare a quanti posti di lavoro ha creato il computer e l’informatizzazione, non potremmo fare altro che ringraziare Gates e tutti gli altri pionieri dell’industria informatica. Difatti è sembrata una semplice provocazione basata su scenari alquanto improbabili, ma qualcuno, tra partiti e sindacati, ha da subito sostenuto la sua proposta.
Una tassa come le altre. Gli effetti auspicabili a seguito di una grande rivoluzione tecnologica sono, innanzitutto, l’aumento della produttività, la crescita del margine per gli investimenti delle imprese, nonché l’accrescimento di risorse per la formazione del capitale umano (attuale e futuro) per restare competitivi e non rimanere indietro. In quasi tutti i sistemi tributari le imprese sono certamente chiamate a rispondere in termini fiscali di ogni forma di razionalizzazione dei processi produttivi, ma questo avviene quasi automaticamente tramite l’imposizione sui profitti dell’impresa. Una tassa sui robot è una tassa sul patrimonio dell’impresa e sul suo valore aggiunto. Questo comporterebbe nell’immediato una tassa aggiuntiva che disincentiva l’investimento. In pratica verrebbero tassati quelli che sono considerati fattori produttivi, colpendo automaticamente l’innovazione. Sembra dunque paradossale pretendere di tutelare l’occupazione richiedendo un’ulteriore addizionale sul reddito d’impresa. Inoltre, una scelta di tale portata dovrebbe essere presa a livello internazionale, altrimenti recherebbe da subito unicamente svantaggi competitivi per i Paesi che la perseguono, incrementando delocalizzazioni produttive di massa.
Sostituzione o ibridazione? Tra le previsioni più sconvolgenti, non può certamente mancare lo studio condotto da Frey e Osborne sul futuro dell’innovazione e dell’occupazione: i due studiosi prospettano che già dal prossimo decennio ben il 47 per cento della forza lavoro statunitense sarà ad elevato rischio di sostituzione. Invece, l’ultimo report di McKinsey & Company sull’occupazione, prevede che circa il 5 per cento della forza lavoro sarà sostituita nel breve e medio termine, e questa percentuale riguarda quasi esclusivamente la manifattura e quei servizi che già da tempo sono stati totalmente robotizzati. Bisogna essere infatti molto chiari su quest’ultimo punto: ciò che molti considerano sostituzione è in realtà un processo di ibridazione, dove la professionalità dell’individuo e le sue capacità produttive vengono rafforzate dall’utilizzo della macchina e non escluse. Questo processo è già in atto da secoli, ma sembra che qualcuno non se ne sia ancora accorto. Ripercorrendo la storia ci accorgiamo di come nascano occupazioni e professionalità che prima erano inesistenti, domande di beni e servizi nuovi che creano nuova occupazione. Ovviamente ci saranno le solite vittime del breve e medio periodo che non riusciranno ad adeguarsi al cambiamento. Vi risulta che nel mondo sia attualmente esistente una grande industria di carrozze per cavalli, magari sostenuta da sussidi pubblici?
Italietta. Proprio in relazione all’economia italiana, sempre più anti-industriale e anti-produttiva, sarebbe falso prospettare uno scenario di progressiva e totale sostituzione dell’uomo con la macchina. L’Italia è l’esempio emblematico di come la mancanza di tecnologia e di investimenti tecnologici possa causare la perdita di posti di lavoro, nonché la menomazione delle capacità produttive. Tutto ciò è la conseguenza sia di politiche fiscali anti-economiche che della sostanziale incapacità delle PMI di disporre di margini sufficienti a tali investimenti.
Sfida politica. La sostituzione tecnologica spaventa poiché è strutturale e permanente. Ciò rappresenta una sfida che la società deve affrontare in maniera serena su due fronti ben precisi: employability, cioè garantire la possibilità di apprendere e praticare nuovi mestieri per mantenere un impiego professionale; welfare, ovvero le tutele sociali, solitamente sussidi di base. Il fronte più importante è soprattutto quello dell’employability, incominciando col detassare le imprese e il lavoro per favorire gli investimenti e la formazione al fine di aumentare l’occupazione, invece che rassegnarsi alla facile elargizione dei sussidi. Quanto potrebbe durare un mondo dove la gran parte della cittadinanza vive di sussidi, mentre il lavoro e la produttività sono invece ultra-tassati? Una questione che riguarderebbe non solo la sostenibilità economica, ma anche l’etica, in quanto si rischierebbe di disincentivare efficienza, innovazione e produttività.