Popolare quartiere di San Lorenzo, esterno giorno: una piccola folla di persone con mascherina di ordinanza e microfoni e taccuini tra le mani si assiepa davanti ad un palazzone ocra su cui un writer socialmente impegnato ha pensato bene di scrivere l’impegnativo ma sbilenco motto “non si specula”.
C’è il sindaco, Virginia Raggi, in prima fila. Una visita istituzionale al plesso scolastico che sorge alle sue spalle, e che diviene occasione, a fronte di una piccola contestazione di centri sociali e agitatori in servizio permanente, per rilasciare una dichiarazione destinata ad accendere le polemiche.
Il Comune di Roma, dice in sintesi la prima cittadina, comprerà il Cinema Palazzo e ne farà un polo culturale da restituirsi ai suoi occupanti, immaginati quindi come custodi dell’ortodossia della sana e corretta gestione di un bene. E non lo dichiara alla cittadinanza, ma proprio agli attivisti.
Il Cinema Palazzo non è un vero cinema, in realtà, non più almeno: lo è stato, fino alla rovina e al rimanersene per anni abbandonato, per poi essere occupato e divenire, sfrondando i vari geologici lemmi che si sono sedimentati per nasconderne la vera sostanza, un centro sociale della sinistra radicale.
Avrei potuto citare molti altri casi analoghi, d’altronde le occupazioni a Roma pullulano e il disprezzo per la proprietà tanto pubblica quanto privata sembra essere divenuta la cifra distintiva della politica: nell’estate 2019, fonti del Viminale stimavano che a Roma vi fossero ben 82 immobili pubblici occupati, ospitanti l’impressionante cifra di 11 mila persone.
Una massa notevole, e chiaramente parziale rispetto ai veri numeri costellati anche di altre occupazioni magari non ancora censite o mordi e fuggi: un esercito anche elettorale e di pressione in termini di opinione pubblica con cui i politici insediati pro tempore ad amministrare la cosa pubblica si confrontano, sia in campagna elettorale sia dopo.
Di tanto in tanto i competenti Dipartimenti e i singoli Municipi redigono delle liste di immobili occupati, una sorta di Spoon River di palazzi, casette, terreni, ruderi un tempo fruttuosamente utilizzati dall’amministrazione capitolina e poi rifluiti nel disagio e nelle occupazioni. Opera di censimento non semplice visto che molto spesso la stessa Roma Capitale non ha piena e completa cognizione del proprio patrimonio immobiliare.
Ma scegliere il caso del Cinema Palazzo era inevitabile, e per un motivo assolutamente e simbolicamente perfetto, per restituire il clima generale di disvalore nei confronti della proprietà: un sindaco che, come se il denaro dell’ente che gestisce e amministra fosse il proprio, blandisce degli occupanti appena sgomberati, facendo capire che la loro azione di “cultura dal basso” sarebbe stata l’istituzione a portarla avanti riconsegnando poi l’immobile, acquistato coi soldi della collettività, ai militanti del centro sociale.
A testimoniare l’episodio sconcertante ci sono anche un dettagliato articolo del 28 gennaio 2021 pubblicato su Art Tribune a firma di Massimiliano Tonelli, un comunicato rilanciato dall’agenzia Ansa, il sindaco stesso che su Instagram si disse “dalla loro parte” (degli occupanti, of course) e, soprattutto, il comunicato degli ex occupanti che proprio in questi giorni sono tornati, con una loro lettera aperta indirizzata alla Raggi, a chiedere conto di quell’impegno.
D’altronde, già nel dicembre 2020 la Giunta del Municipio aveva approvato una memoria per “preservare la vocazione sociale” dello spazio. E in seguito a quell’estemporaneo incontro su strada si sono tenute alcune riunioni di un tavolo tecnico vertente proprio sulla questione.
Perché mi dilungo su questo episodio? Non lo faccio, in realtà, per stigmatizzare l’episodio in sé quanto il clima che avvolge, come un sudario inancrenito, la città eterna, e che di eterno ormai ha solo la polvere dei secoli.
A dire il vero, in termini culturali, la questione sembra anche trascendere gli importanti ma geograficamente limitati confini della Capitale: è arrivata proprio in questi giorni la assoluzione di alcuni tra gli occupanti, con l’avallo di una magistratura che ormai ha rinverdito la propria “vocazione sociale”, come si sarebbe detto nel cuore degli anni sessanta quando venne formulata la teorizzazione dell’uso alternativo del diritto, ovvero dell’attivismo politico del magistrato.
Ma la vicenda del Cinema Palazzo si incista in un discorso più ampio e che involge il senso istituzionale della politica capitolina: siamo d’altronde nell’anno del rinnovo del Consiglio comunale (tecnicamente, Assemblea Capitolina ma al di là dei nominalismi, Roma rimane in un bozzolo irrisolto che la relega a mero Comune) e delle elezioni che sia pur spostate in avanti dall’infuriare della pandemia si consumeranno tra pochi mesi. Elezioni destinate a spostare poco la generale incapacità o impossibilità di amministrare, in assenza di una radicale razionalizzazione della figura istituzionale dell’ente Roma Capitale che sia coerente con il novellato dato costituzionale e che ha riconosciuto solo con la riforma del Titolo V, assai tardivamente rispetto al testo originario della Carta fondamentale, al nuovo articolo 114 Roma come Capitale d’Italia.
Roma è oggettivamente un gigante dai piedi d’argilla, una Capitale che ospita nel suo ventre, caso unico a livello mondiale, un altro Stato, il Vaticano: una città che duplica le sue funzioni e in cui tutto è sospeso nell’ambigua indistinzione tra ente territoriale e fattori connessi alla capitalità.
Una città ignava e dolente che se da un lato era cantata con vivida partecipazione da Goethe, Taine, Stendhal, Zola e dai poeti romantici, poi dall’altro lato era disprezzata e dileggiata dagli stessi per la sua sporcizia, per il suo chiamarsi fuori dalla storia, per la sua irrazionalità.
Roma, ancora oggi, è quel gigante assopito che se ne frega di tutto, come urla lo straordinario Alberto Sordi nel film storico di Luigi Magni “In nome del popolo sovrano”.
Ma Roma, al di là delle proprie colpe, della sua scarsa autocoscienza, ha un difetto genetico che rimonta nella consistenza della sua classe politica: le pur diverse, per altre ragioni, sinistra e destra capitoline si trovano accomunate dall’essere polarizzate in maniera quasi sincronica su una concezione generale di statalismo assistenzialista e di protezionismo economico senza freni.
Al netto della “sinistra da ZTL”, per ricchi e annoiati intellettuali, e della “destra da periferia estrema”, protesa invece a coccolare il lumpenproletariat capitolino, c’è una sostanza, profonda, che lega i due schieramenti.
Da un lato una sinistra, dentro cui posiziono anche l’esperienza della Raggi che più di una volta ha strizzato l’occhiolino ai centri sociali e a realtà analoghe, che guarda a queste esperienze di “occupazioni dal basso”. Ma dall’altro lato dello spettro politico la “destra sociale”, etichetta-mondo utilissima per spiegare le coordinate concettuali che legano Fratelli d’Italia e la Lega romana, originanti nei fatti entrambi dal medesimo humus culturale.
Cambiano i referenti concreti e le classi sociali ma entrambi gli schieramenti sembrano votati a considerare solo le ragioni di chi, per una ragione o per l’altra, sembra dover dipendere dall’intervento assistenziale o protezionistico della sfera pubblica.
Categorie produttive, proprietari immobiliari, imprenditori, al contrario, sembrano divenire figli di un Dio minore nel generale teorema della rappresentanza istituzionale degli interessi e della politica.
Prendiamo ad esempio le battaglie storiche della destra romana, che portarono Alemanno a insediarsi a Palazzo Senatorio: le categorie oggetto di attenzione sembrano essere sempre le stesse. Venditori ambulanti, tassisti ed NCC, in alcuni casi concessionari di beni o servizi pubblici come nel caso dei gestori del demanio marittimo che si stende placido e intoccato da decenni ad Ostia.
Tutte categorie rispettabili, per carità, ma che in comune hanno la totale avversione a qualunque canone di logica di mercato, di concorrenza e di liberalizzazione: ricordiamo tutti la cronaca punteggiata di polemiche e proteste feroci contro la messa a gara dei servizi delle spiagge, specialmente dopo l’entrata in vigore della famigerata Direttiva Bolkestein, e ricordiamo altrettanto bene le manifestazioni di piazza dei tassisti con conseguente blocco della circolazione.
La destra romana sembra incapace di prescindere da questa logica staticamente conservativa, facendosi così paladina della rendita di posizione di licenze e concessioni che, molto spesso lo si dimentica, incidono profondamente sul benessere della cittadinanza: nessuno infatti mai invoca il mercato come se fosse una punizione nei confronti di un dato soggetto tenutario di una licenza o di una concessione, il mercato al contrario è la razionalità di gestione e di allocazione delle risorse che dovrebbe in ipotesi portare, senza distorsivi interventi pubblici, al benessere dei vari attori che esso popolano, non ultimi i cittadini che si trovano alle prese con servizi gestiti in modalità tendenzialmente monopolistica.
Il discorso diventa ancora più vivo se spostiamo lo sguardo sull’universo delle società partecipate capitoline, vera croce e delizia del panorama romano: delizia per i serbatoi elettorali, tra presenze invasive sindacali e pacchetti di voti, croce autentica per i cittadini che si ritrovano con raccolta rifiuti, trasporti pubblici, beni culturali scarsamente performanti e altrettanto scarsamente soddisfacenti (eufemismo).
Le lingue di fiamma che avvolgono la sagoma metallica e contorta di un qualche bus, o il carnaio brulicante lungo scale mobili rotte, e i ritardi strutturali delle corse, e le montagne di rifiuti su cui pascolano cinghiali e ratti testimoniano in maniera non revocabile in dubbio quanto la gestione stancamente monopolistica sia destinata al fallimento e alla debolezza nella qualità, e nella quantità, dei servizi erogati.
Roma necessiterebbe di una massiccia campagna di privatizzazione: dei suoi servizi, dei suoi beni, dei suoi asset. Per così tanto tempo la polvere della gestione pubblica si è sedimentata, granello dopo granello, da rendere ormai invisibile il cuore del problema: l’incapacità gestionale e decisionale della politica, la sua mancanza di coraggio nell’affrontare gordianamente problemi strutturalmente incancreniti.
Il solo pensiero di privatizzare beni e servizi fa inorridire i politici che si sentirebbero nudi e soli, senza più un elettorato di riferimento: eppure, sembrano non capire che ogni servizio reso più efficiente è gradimento da parte della cittadinanza che di quel servizio fruisce.
Anche i cittadini comuni votano, se mai uno se lo fosse dimenticato. I voti persi nei confronti di qualche singola categoria si recuperano, con ampi interessi, nel corpo di una cittadinanza contenta e soddisfatta per i servizi resi.
Parchi in mano pubblica sporchi, trascurati, malamente popolati da sbandati, si ritiene che il solo fatto di tenerli aperti a tutti in quanto pubblici sia un favore reso alla cittadinanza: ma sono davvero “aperti” solo perché pubblici? Non direi: nessuno sano di mente porterebbe la propria famigliola in un parco infestato da rifiuti, cinghiali e sbandati, col rischio di pestare una siringa o di venir rapinati.
Non più di quanto si potrebbe pensare che un centro sociale sia un luogo di aggregazione aperto alla cittadinanza e che “recupera” una qualche valenza sociale di un dato immobile. È solo una sede politica dentro cui avvengono traffici, attività, si svolgono concerti, servizi di ristorazione, il tutto quasi sempre fuori da qualunque canone di legittimità e di legalità, in concorrenza sleale con i ristoratori e i locali di concerti che invece devono sottostare a norme di sicurezza, di autorizzazione, di igiene, e via dicendo.
A Roma vanno superate le rendite di posizione monopolistiche, altrimenti la città non uscirà mai dalla palude dentro cui è piombata. Le parole chiave per far ripartire la Capitale sono tutela della proprietà, mercato e concorrenza: e per mercato intendo vero mercato, non affidamento a un singolo privato magari favorito dalla sua vera o presunta appartenenza politica.
Devono essere sgomberati tutti gli spazi occupati e restituiti alla loro dimensione pubblica o ai privati legittimi proprietari. Non esiste alcuna presunta “vocazione sociale”, la quale molto spesso è solo un comodo alibi culturale.
Dovrebbero essere messe a gara le licenze dei tassisti, dovrebbero essere messi a bando i servizi balneari, dovrebbero essere privatizzati i grandi parchi cittadini e le aree golenali del Tevere.
Preferisco pagare un biglietto di ingresso e poter fruire di un parco rigoglioso, curato e sicuro, piuttosto che pascolare nella brughiera arsa dal sole e popolata da smunte figure di tossicodipendenti e sbandati vari.
Non è questione di censo o di discriminazioni, qualunque persona dotata di buon senso e raziocinio preferirebbe spendere due o cinque euro piuttosto che entrare gratis e calpestare dopo tre metri una siringa. È una sfida titanica, me ne rendo conto, specie per una classe politica infiacchita e scarsamente disposta a mettersi in discussione. Qualcuno la vorrà raccogliere?