Non ci sembrano essere state valutate in tutta la loro portata la bocciatura della proposta di riforma del regolamento di Dublino e l’iniziativa tra nazioni annunciata mercoledì dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che potrebbero segnare l'”anno zero” di nuovi equilibri politici continentali in Europa.
Il no del governo italiano alla riforma è apparso alle opposizioni e ai commentatori di casa nostra come un autogol per il nostro Paese: l’affossamento del sistema dei ricollocamenti sembra convenire ai Paesi del gruppo di Visegrad, da sempre contrari, ma non a quelli di primo arrivo dei rifugiati, cui verrebbe a mancare qualsiasi sgravio e solidarietà da parte dell’Ue. Detta così sembra avere un senso, ma allora come si spiega il no anche da parte della Spagna? Anche a Madrid non hanno saputo tutelare il loro interesse nazionale?
Il problema di questa lettura è che poteva essere valida con i governi che avevano fatto dell’accoglienza il loro principio guida. Ma i ricollocamenti previsti nell’ipotesi di compromesso respinta avrebbero riguardato solo i rifugiati, un’estrema minoranza degli arrivi nel nostro Paese, e solo in caso di “afflusso massiccio”. E se il no alla riforma di Dublino aprisse invece ad una correzione di rotta complessiva della strategia Ue, verso “modello australiano” e respingimenti, allora si spiegherebbe perché il ministro dell’interno Salvini l’ha accolto come un “successo”.
A finire nel cassetto è un sistema di quote comunque insoddisfacente per l’Italia, troppo piccolo il numero di migranti coinvolti, e che avrebbe avuto comunque poche chance di vedere la luce al termine di un lungo e complesso iter, mentre si apre la strada a un’alleanza di Paesi intenzionati a promuovere una politica europea di deciso contrasto dei flussi migratori. Il dossier immigrazione, Dublino compreso, sta per finire infatti nelle mani del governo di Vienna, che da luglio assumerà la presidenza di turno dell’Unione. E come anticipato dal cancelliere Kurz, il focus della prossima presidenza semestrale austriaca sarà “sulla protezione e il controllo delle frontiere esterne”, su cui il consenso tra gli stati membri è ampio, mentre il sistema delle quote è troppo divisivo. “Dobbiamo approfittare di questa occasione per dotare Frontex di un mandato politico più forte, e garantire che i flussi migratori verso l’Europa siano ridotti, mettendo fine alle morti nel Mediterraneo”, ha spiegato Kurz.
Il cancelliere ha inoltre anticipato “un’iniziativa nazionale austriaca” – quindi per ora al di fuori della prossima presidenza di turno dell’Ue – “con un gruppo di altri stati dell’Unione, tra cui la Danimarca e altri, affinché i migranti trovino protezione fuori dall’Europa. Così potranno avere protezione, se necessario, ma non avranno possibilità di scegliere il Paese a loro più congeniale dove presentare la richiesta d’asilo”. “Ai migranti illegali, dopo il loro salvataggio”, nel caso non sia possibile rimandarli nel Paese di provenienza, “dovrebbe essere offerta protezione in centri sicuri in Paesi terzi”. Dunque, sembra di capire che il piano a cui Vienna sta lavorando preveda l’apertura di strutture di accoglienza e identificazione per i migranti, richiedenti asilo e non, fuori dall’Ue, ma a carico degli stati europei promotori. Un piano che scavalcherebbe le istituzioni Ue, Commissione in primis, e l’ostacolo del metodo consensuale previsto per le decisioni del Consiglio, per affrontare il nodo immigrazione attraverso la cooperazione di un gruppo di governi nazionali.
In fondo, non sarebbe altro che un esempio di quella Europa “a più velocità” teorizzata a Berlino e Parigi: in mancanza di accordo tra i 28, una sorta di cooperazione rafforzata tra chi ci sta. La novità, il fatto politico nuovo, inedito, sarebbe che in questo caso il passo avanti sarebbe promosso e guidato dall’Austria e dal gruppo di Visegrad, non da Francia e Germania.
Con la bocciatura dell’ipotesi di riforma di Dublino abbiamo assistito dunque ad un vero e proprio smottamento degli equilibri politici europei. Potrebbe non trattarsi solo di un episodio, ma di una tendenza. Potrebbe preludere ad uno spostamento, o meglio un riequilibrio di medio-lungo periodo dei rapporti di forza continentali a favore dell’Europa orientale e meridionale.
Non è stata infatti il risultato solo dell’accresciuta influenza delle politiche coordinate del gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria). Occorre riconoscere il peso dell’Austria, un paese di frontiere, e di cerniera tra est e ovest (Vienna è più a est di Praga). Ma non ci troveremmo di fronte a un fatto nuovo se l’Italia (il più grande tra i Paesi che hanno detto no alla riforma di Dublino), seguita dalla Spagna, non avesse deciso di fare fronte comune con Austria e blocco di Visegrad, anziché accodarsi a tedeschi e francesi come al solito. Berlino ha dovuto prendere atto e la riforma è morta.
Una rottura del tradizionale schema lungo l’asse nord-sud e, sul dossier immigrazione, est-ovest. La divergenza, la spaccatura che sembra intravedersi è tra governi espressione di culture politiche diverse: da una parte quelli guidati da forze politiche più tradizionali, popolari o socialiste, e dall’altra i governi guidati o condizionati da forze identitarie, sovraniste, anti-sistema.
L’affondamento della riforma di Dublino è quindi la prima conseguenza a livello europeo del voto italiano del 4 marzo. Nel governo italiano, il primo dei “sovranisti” e dei “populisti” tra i Paesi fondatori dell’Ue, Austria e Paesi di Visegrad potrebbero trovare una sponda naturale, non solo sul dossier immigrazione. E il peso specifico necessario a spostare gli equilibri all’interno dell’Unione e a far saltare i vecchi schemi di alleanze e di governo dell’Europa.
Sull’asse Visegrad-Roma potrebbe saldarsi una nuova alleanza tra Paesi Ue, in grado di condizionare le politiche europee e tentare di fungere da contrappeso all’asse franco-tedesco. Un’ulteriore spinta in questa direzione potrebbe arrivare dall’amministrazione Trump, che ha ormai aperto l’offensiva su Berlino per impedire un’Europa “germanizzata”. La politica sull’immigrazione sarà il banco di prova, anche se non è detto che il Governo Conte si dimostrerà capace di giocare questa partita su più fronti.