È ormai chiaro che tra Mosca e Teheran in Siria volano gli stracci. Il regime di Assad sta passando uno dei suoi momenti più difficili, non tanto in questo caso per la guerra in corso, quanto per una drammatica spaccatura all’interno della famiglia al potere: il cugino del presidente Bashar, Rami Makhlouf, è fuggito e ha pubblicato un video di accusa contro il presidente, accusandolo di persecuzione nei suoi confronti e nei confronti della sua famiglia.
Uno sviluppo non di secondo piano, perché in gioco c’è il futuro del potere degli Alawiti in Siria. Quella tra gli Assad e i Makhlouf, infatti, è l’alleanza che regge il regime siriano, dopo il matrimonio celebrato nel 1957 tra Hafez al Assad – ex presidente (dittatore) siriano e padre di Bashar – e Anisa Makhlouf. Un matrimonio che, dopo la presa del potere da parte di Hafiz nel 1970, ha garantito l’alleanza tra i due clan alawiti e l’arricchimento senza limiti dei Makhlouf. Tanto che, fino ad oggi, proprio Rami Makhlouf era visto come il finanziatore del regime del cugino Bashar. Un sostegno economico garantito per mezzo di un impero finanziario che, oltre alla rete mobile nazionale (Syriatel), controlla anche il settore dell’edilizia, delle automobili e del turismo. Ovviamente, un controllo assicurato soprattutto per mezzo della corruzione.
Qualcosa però si è rotto, soprattutto perché per il presidente russo Putin, Makhlouf aveva accumulato troppo potere ed era troppo vicino alla Repubblica Islamica dell’Iran. Per queste ragioni, Mosca ha agito dietro le quinte per pretendere da Assad che ponesse fine ad un sistema di corruzione interna senza fine, il cui unico risultato è quello di non permettere una minima stabilità economica ad un Paese già dilaniato dal conflitto. Assad ha recepito e ha immediatamente chiesto al cugino di restituire allo Stato 600 milioni di dollari di tasse non pagate. Non solo: Damasco ha anche ordinato l’arresto di 12 dipendenti al servizio di Makhlouf.
Per la Russia, stabilizzare economicamente la Siria è fondamentale, per poter ridurre la missione militare sia in termini di spesa che numerici. Per questo è importante non solo che Assad non perda la guerra, ma anche che riesca a mantenere un consenso politico nelle aree da lui controllate. Consenso che comincia a calare, proprio a causa della corruzione, della crisi economica e della svalutazione della lira siriana. Non solo: la stabilizzazione permetterebbe a Mosca di concentrarsi sulla ricostruzione della Siria, ovvero di recuperare sotto forma di appalti e contratti quanto finora speso per salvare Assad.
Peccato che l’Iran voglia la stessa cosa e che a Teheran pensino di avere lo stesso identico diritto di Putin (se non maggiore, essendo gli iraniani intervenuti in precedenza al fianco di Assad). Ecco allora che dall’Iran arrivano le parole del parlamentare conservatore Heshmatollah Falahatpisheh, eletto a capo della Commissione per la politica estera e la sicurezza, anche grazie al sostegno dei “riformisti”. In una intervista a Etemad Online, Falahtpisheh ha dichiarato che l’Iran ha speso in Siria una somma che varia tra i 20 e i 30 miliardi di dollari e che, per questo, ha diritto di ricevere indietro quanto dato. Non ha chiarito come sono stati spesi questi soldi né soprattutto come l’Iran intenda riaverli, ma il senso delle sue parole è molto chiaro: caro Assad, non puoi pensare di farci fuori da una torta che ci spetta di diritto…
Come finirà questa partita tra Mosca e Teheran è da vedersi, anche se per ora la Repubblica Islamica sembra passarsela peggio. Detto questo, resta il fatto che il regime iraniano ha deviato almeno 30 miliardi di dollari per sostenere Assad in Siria, sottraendoli ai cittadini iraniani. Ovvero, sottraendoli a milioni di cittadini che tutti i giorni lottano contro la disoccupazione e la corruzione interna, ma per il regime fondamentalista la jihad fuori dai confini nazionali sembra essere più importante del benessere del suo stesso popolo…