Nel ricorrente dibattito sulla natura del sistema Putin (dittatura, sistema ibrido, democrazia autoritaria) uno degli aspetti paradossalmente meno commentati è il rapporto tra potere e mezzi di comunicazione. Il caso Navalny ha recentemente spostato l’attenzione sull’uso dei social media come tattica di mobilitazione e di denuncia dei misfatti dei dirigenti politici, ma il rischio è quello di sopravvalutarne l’impatto: Navalny è in carcere ed è destinato a rimanerci almeno per i prossimi due anni, le manifestazioni contro la sua detenzione si sono sgonfiate nel giro di due settimane e Putin può inscenare in un incontro con Lukashenko il ritorno ad una apparente “normalità” sia a Minsk che a Mosca.
Margarita Simonyan, che dirige l’emittente internazionale pro-Cremlino Russia Today (RT), si è spinta di recente fino a chiedere la censura totale dei social network stranieri nel Paese. Putin è cosciente che questa mossa sarebbe controproducente, anche perché la legislazione sul web dal 2014 è già particolarmente restrittiva, permettendo la chiusura senza preavviso per ragioni di sicurezza nazionale e imponendo la registrazione dei siti più popolari, i cui dati sono messi a disposizione dello Stato. In coincidenza con le recenti proteste di piazza, le autorità russe hanno preventivamente intimato alle testate non allineate e ai media online più seguiti di astenersi dal coprire le manifestazioni, sotto pena di sanzioni pecuniarie o del ritiro delle licenze. Per il momento, quindi, la “minaccia” proveniente dalla rete sembra sotto controllo.
Analizziamo allora la prospettiva dal punto di vista dei media tradizionali. Anche se può sembrare un’affermazione provocatoria, visto che nella classifica della libertà di stampa di Reporters sans frontières (RSF) la Russia di Putin occupa il 149esimo posto, il panorama piuttosto complesso dei mezzi di comunicazione è probabilmente quel che la distingue maggiormente da una dittatura classica. Il che non significa ovviamente che quello russo sia un contesto favorevole alla professione giornalistica (sono ufficialmente 26 i cronisti assassinati durante i vari mandati di Putin), ma indica che è comunque possibile riscontrare una molteplicità di circostanze anche molto diverse tra loro.
Si considerino innanzitutto le circa 80.000 testate giornalistiche registrate, tra carta stampata (due terzi del totale), canali televisivi (intorno al 10 per cento), stazioni radio, media online e agenzie di stampa. Per capire meglio il quadro di riferimento basta mettere a confronto la situazione russa con quella cinese. In Cina, la cui struttura statale di repressione e controllo rappresenta il paradigma dei moderni sistemi dittatoriali, non è di fatto concepibile la presenza di mezzi di informazione e comunicazione indipendenti o anche solo velatamente critici nei confronti del Partito-Stato. In Russia la situazione è notevolmente diversa, tanto che è possibile identificare tre tipologie principali: i media ufficiali (quelli controllati dallo Stato e gli organi di stampa affini o comunque compiacenti con il sistema Putin), i non allineati (che cercano di lavorare tra le pieghe del potere), e infine quelli chiaramente avversi a Putin e alla sua politica, con un taglio più filo-occidentale: tra i primi, gli ufficiali, rientrano la maggioranza dei canali televisivi, le agenzie di stampa nazionali e le principali emittenti radiofoniche, nonché giornali come Izvestia o Komsomolskaya Pravda; tra i non allineati quotidiani come Kommersant e Vedomosti, e in generale le testate private generalmente in mano a uomini d’affari più o meno in quota Cremlino; tra i critici potremmo citare i classici Novaya Gazeta (il giornale della Politkovskaya), Moscow Times (online), l’agenzia di notizie Interfax, la radio Eco di Mosca e i vari siti dell’opposizione tra cui spicca Meduza, con sede in Lettonia.
Queste distinzioni possono sorprendere se si considera la progressiva involuzione autoritaria che, a partire già dal 2006 – ma soprattutto e in maniera decisiva dal 2014 – ha caratterizzato l’apparato di potere putiniano. In realtà lo scenario descritto, che conserva come si vede una certa dose di pluralismo, è uno specchio abbastanza fedele della stratificazione che ha sovrapposto cappe di autoritarismo con frequenza regolare sulla società civile russa e, conseguentemente, anche sulla libertà di stampa. Il punto è che se Putin oggi non controlla ancora l’intero assetto mediatico è soprattutto perché il processo di chiusura del suo sistema si è sviluppato all’interno di una realtà in cui gran parte dei media oggi presenti esistevano già prima di lui o hanno cominciato a operare durante il primo decennio del suo mandato, che si potrebbe definire relativamente benevolo.
Interessante a questo proposito recuperare un report del 2004 della rivista Russia in Global Affairs che analizzava lo stato dell’arte a quattro anni dall’insediamento di Putin, concludendo che la salute della libertà di stampa in Russia, seppur condizionata dalla presenza degli oligarchi, era comunque piuttosto soddisfacente e non si intravedevano tendenze involutive o interventi invasivi dello Stato nel breve periodo. Significativo che il titolo del report fosse: “Mass Media in Russia, sono davvero liberi?”: si partiva cioè dalla prospettiva della libertà dei media, non da quella della loro subordinazione al potere costituito, come invece si è soliti fare oggi. Se il ventennio putiniano è cominciato in un clima informativo e di dibattito pubblico aperto, ciò si deve al fatto che gli anni ’90, l’epoca eltsiniana per intenderci, se dal punto di vista politico sono stati turbolenti e da quello economico estremamente difficili, sotto il profilo della libertà d’espressione hanno rappresentato il periodo più brillante non solo dell’ultimo trentennio ma dell’intera storia russa.
Questa premessa, ovvero la preesistenza di un’offerta informativa decisamente più libera e indipendente dell’attuale, è necessaria per comprendere perché per consolidarsi il sistema putiniano abbia dovuto spesso ricorrere all’intimidazione nei confronti dei giornalisti critici con il governo, in un climax ascendente che è andato dall’avvertimento, alla minaccia, all’uso strumentale delle corti di giustizia – clamoroso il caso di Ivan Safronov di Vedomosti, condannato lo scorso luglio con l’accusa di aver passato informazioni segrete a un Paese Nato – fino alla vera e propria eliminazione fisica. Il caso più noto è ovviamente quello di Anna Politkovskaya, uccisa nel 2006 a causa dei suoi articoli sulla guerra in Cecenia, ma la scia di sangue conduce fino al caso recente di Irina Slavina, che si è data fuoco davanti alla sede della polizia di Nizhni Novgorod, accusando esplicitamente gli apparati di sicurezza della Federazione russa di averla perseguitata per la sua attività giornalistica. Ma nel corso degli anni il controllo politico sull’apparato mediatico si è andato progressivamente estendendo anche attraverso tattiche di cooptazione, di rimozione degli indesiderabili, di imposizione dall’alto dei canoni politici di riferimento a cui attenersi. Alla situazione attuale si è arrivati comunque con il tempo e, nonostante tutto, non si può dire che oggi Putin detenga il monopolio del quarto potere, come invece avviene normalmente nei regimi autoritari classici.
Dove il controllo è pressoché assoluto è invece sui canali televisivi, che sono poi quelli destinati a forgiare la nuova identità russa. I principali (Primo Canale, Rossiya, NTV) sono tutti direttamente o indirettamente, attraverso Gazprom, in mano allo Stato. Più che di censura governativa (formalmente proibita per legge) in questi casi si tratta di autocensura, originata da processi di selezione mirati a garantire la cinghia di trasmissione dal potere politico ai media, da un controllo preventivo dei temi da trattare e della forma di trattarli, da esplicite forme di orientamento del consenso (programmi di taglio smaccatamente nazionalistico e anti-occidentale, sondaggi d’opinione orchestrati per influenzare l’opinione pubblica), oltre che evidentemente da più o meno sfacciate tattiche di propaganda: si pensi alla vicenda ucraina dopo il 2014, all’attualissima questione della memoria storica e alla costante opera di manipolazione di emittenti come la già citata Russia Today, vero e proprio strumento di penetrazione geopolitica all’estero. Secondo l’ultimo sondaggio dell’Istituto Levada, il 65 per cento dei russi si informa grazie alla televisione: Navalny permettendo, nella partita dell’audience per adesso Putin gioca ancora in casa.