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Salario minimo? Ecco perché sarebbe un disastro sia per i lavoratori che per le imprese

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Il 4 marzo si avvicina, ormai la campagna è agli sgoccioli e, come ogni volta, molti di noi sentono la “pressione” delle urne avvicinarsi. Puntualmente, nei programmi elettorali diversi parlamentari tirano fuori i vecchi assi nella manica per quel che riguarda le questioni del lavoro: recentemente è toccato al salario minimo. Proposta un tempo quasi esclusivamente relegata alla sinistra, quest’anno ha trovato terreno fertile negli schieramenti politici più disparati. L’idea è stranamente passata in sordina ed è stato poco discussa nei talk show, quasi come ci fosse un’aura di tacito consenso: ritengo perciò che sia necessario approfondire l’argomento da un punto di vista liberal-conservatore, pienamente conscio di attirarmi addosso le antipatie di tutti i sindacati d’Italia.

Innanzitutto stabiliamo cos’è il salario minimo: è la più bassa remunerazione su base oraria, giornaliera o mensile che i datori di lavoro devono per legge corrispondere ai dipendenti. L’obiettivo, a detto dei sostenitori, sarebbe quello di elevare ad un livello dignitoso le retribuzioni dei lavoratori poveri o caratterizzati da poche skills. In Europa manca solamente in Italia, Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia.

Nel nostro paese circa l’85% delle retribuzioni minime vengono fissate dai contratti collettivi, ovvero accordi stipulati tra i massimi organi sindacali e le varie associazioni di imprenditori con cui vengono stabilite le paghe in ogni settore.

Il salario minimo non garantisce un’occupazione, ma assicura che quelli già assunti o che stanno per esserlo percepiscano tale somma. E questo è un particolare che per quanto banale possa essere, è veramente cruciale poiché porta a due unici risultati: disoccupazione e aumento dei prezzi. Lo stipendio – in altri termini – non è altro che il costo della manodopera. Nel caso in cui questa proposta elettorale diventasse realtà, ci troveremmo in una situazione in cui tale spesa aumenterebbe non perché i dipendenti sono diventati più produttivi o capaci, ma perché verrebbe imposto dall’alto dallo Stato. Questo si rifletterebbe immediatamente sul bilancio: aumentando i costi, i datori di lavoro riorganizzerebbero internamente l’azienda per far quadrare i conti licenziando personale, diminuendo le ore lavorative dei restanti impiegati – pretendendo livelli produttivi più intensi – e aumentando i prezzi dei servizi e dei beni. In un colpo solo ci rimetterebbero sia i dipendenti, sia i datori che i consumatori finali.

Come se non bastasse, la fascia più vulnerabile, ovvero quella dei giovani, sarebbe quella colpita nel modo più grave. Le aziende non sarebbero per nulla invogliate ad assumere, specialmente nel caso di persone con poca esperienza o con conoscenze molto limitate: verrebbe inoltre disincentivata qualsiasi forma di investimento riguardante i corsi di formazione intra-aziendale. Anche se un ragazzo fosse disposto a lavorare per meno del salario minimo, ciò comunque risulterebbe illegale e infattibile, costringendolo probabilmente al lavoro in nero. Oltre ad uno stipendio perso, verrebbe a mancare l’acquisizione di esperienza, di responsabilità, di skills e di lavoro di gruppo: tutte cose che servono a un giovane per poter avere in futuro un lavoro migliore, ben retribuito e dignitoso. Non dimentichiamoci, inoltre, di come tale fascia sarebbe tra le prime a risentire degli effetti dell’automatizzazione, argomento già precedentemente trattato su Atlantico.

Alla lunga, queste persone si ritroverebbe vittima del welfare system, cadendo in una spirale di povertà ben difficile da cui risalire: la rabbia di questa fetta di popolazione verrebbe poi beceramente sfruttata da partiti populisti o, peggio ancora, estremisti di ambo i lati. Sin dal ’68, nelle questioni del lavoro i sindacati e le più disparate fazioni politiche hanno sempre spinto per un approccio difensivo/ostile: il salario minimo è sempre stato visto come una perpetua battaglia contro il datore di lavoro, il Davide e Golia dell’epoca moderna. Forse bisognerebbe però ricordare di come il tessuto economico italiano è costituito per il 99 per cento da piccole e medie imprese, di cui il 95 per cento sono micro imprese, ovvero aziende con meno di 10 dipendenti. [1] [2] Spesso i datori provano a retribuire più che possono i loro dipendenti, magari tagliandosi anche il loro stipendio o pagandolo di tasca propria in modo da far sbarcare il lunario a tutti (cosa che succede troppo spesso, ahimé). Le imprese, già soffocate da un’eccessiva burocrazia e tassazione, ricorrerebbero quindi ad usare ancor di più contratti instabili e a limitare notevolmente il ricambio generazionale del personale: già attualmente in Italia il tasso di anzianità interna è uno dei più alti in Europa.

Quindi, quale potrebbe essere una soluzione al problema? Un esempio sarebbe l’approccio statunitense: permettere ai datori di lavoro e ai potenziali dipendenti di contrattare il salario autonomamente durante il colloquio. Interessante è l’articolo provocatorio del New York Times del 1987, scritto sotto l’amministrazione Reagan, e dal titolo The Right Minimum Wage: 0.00 (Il salario minimo giusto: 0.00 dollari), dove viene data fiducia al libero mercato e alla possibilità di potersi “regolamentare” da soli lasciando spazio alla dignità umana.

“L’idea di usare un salario minimo per superare la povertà è vecchia, onorevole – e fondamentalmente imperfetta. È tempo di mettere da parte questo dibattito accanito e di trovare un modo migliore per migliorare la vita delle persone che lavorano molto duramente per pochissimo.”

In poche parole, bisognerebbe abbandonare le politiche ostruzioniste ed immobiliste di difesa del posto di lavoro per lasciare spazio a quelle pratiche di buon governo atte a favorire l’occupazione.

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