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Salvini a processo: il golpe soft e la “giudiziarizzazione” della politica

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È del tutto in clima con l’attuale deperimento del sistema democratico il tentativo della maggioranza, confortata dai mass media “indipendenti” , con a primo violino la Repubblica e a secondo il Corriere della Sera, di presentare l’autorizzazione a procedere concessa dal Senato nei confronti di Salvini come se lo riguardasse solo come ex ministro degli interni. Certo, da punto di vista formale, ma non da quello sostanziale – di gran lunga prevalente – di essere il leader dell’opposizione, cioè di quel centrodestra, che ha conquistato fino ad ora nove delle dieci regioni in contesa e ha dalla sua tutti i sondaggi dal debutto del Governo giallo-rosso.

Come ho già avuto occasione di ricordare, questo rinvia a quel vulnus inferto allo statuto garantista previsto a favore dell’esecutivo vis-à-vis del giudiziario dall’originario testo costituzionale. La legge costituzionale n. 1 del 1989 ha modificato gli artt. 96, 134 co. 3, 135, co. 7, sì da escludere per il presidente del Consiglio e per i ministri, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, la procedura “speciale”, per la quale potevano essere messi in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune e giudicati dalla Corte costituzionale, integrata da sedici membri elettivi; e l’ha sostituita con una procedura “ordinaria”, attribuendone la competenza alla magistratura del Tribunale del capoluogo del Distretto di Corte d’appello competente per territorio, il c.d. Tribunale dei ministri: con il procuratore titolare dell’azione penale e un Collegio giudicante formato da tre membri estratti fra tutti i magistrati dei Tribunali del distretto aventi certi requisiti. Una volta che detto Collegio abbia concluso per la sussistenza di reati inerenti allo svolgimento delle funzioni ministeriali, deve richiedere l’autorizzazione a procedere alla Camera di appartenenza, che può rigettare la richiesta solo a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

Si può cercare un confronto con l’impeachment promosso dal Congresso nei confronti del presidente Trump, con l’ultima parola affidata anche qui al Senato; ma, attenzione, è comunque necessaria la maggioranza di due terzi, cosa difficile se non impossibile a verificarsi in un sistema consolidatosi come bipolare. Affinché si verificasse tale sarebbe possibilità, bisognerebbe che la maggioranza, repubblica o democratica che fosse, avesse la maggioranza al Congresso e al Senato, qui addirittura schiacciante, appunto di due terzi.

Che cosa succede in casa nostra, dopo aver eliminato la garanzia originaria, con un cedimento masochista al clima di giustizialismo che ha finito per elevare la magistratura non solo da “ordine” a “potere”, ma a potere sovra-ordinato rispetto al legislativo e all’esecutivo, con un correttivo improprio della divisione dei poteri, che per essere tale deve prevedere idonee garanzie reciproche? Bene, tocca alla magistratura ordinaria, travestita da Tribunale dei ministri, chiedere l’autorizzazione a procedere alla Camera di appartenenza, ma questa la può bocciare solo a maggioranza della sua composizione, cioè avendo dalla sua quella stessa maggioranza che al momento sostiene il governo, con buona pace dell’opposizione che avesse per caso sotto accusa un suo membro rivestito del ruolo di ministro in un governo precedente. E la conferma è plateale nella sequenza di due casi , Diciotti e Gregoretti. Nonostante le sottigliezze sofistiche abbarbicate al voltafaccia di un presidente del Consiglio succeduto a se stesso, con un cambio di numero normalmente riservato alle successioni monarchiche o papali; nonostante queste sottigliezze, la decisione è stata del tutto ricalcata sulla maggioranza al momento esistente, ieri giallo-verde e oggi giallo-rossa.

Il vulnus arrecato da quella modifica costituzionale, introdotta dai padri costituenti con la piena consapevolezza della sua rispondenza ad un equilibrio dettato dalla tradizionale divisione dei poteri, intesa come non interferenza reciproca assicurata dalla previsioni di “barriere garantiste”, si rivela gravissimo nel momento stesso in cui l’ex ministro in questione è il leader dell’opposizione parlamentare. Non è il caso di rinviare il giudizio ai prossimi sondaggi, perché, comunque siano, non modificherebbero il giudizio; tanto più che, a stare ai commentatori sintonizzati più o meno sul governo attuale, qualora tali sondaggi fossero favorevoli alla Lega, sarebbero momentanei, destinati a diminuire via via.

Non c’è in costoro nessuna consapevolezza di quello che ho chiamato in uno scritto precedente “effetto Vajont”, cioè il prodursi di una frana rappresentata dalla costante mortificazione di una opposizione largamente condivisa nel Paese, tale da superare la diga costituita artificiosamente al libero dispiegarsi della dialettica democratica. E così, travalicare oltre, rendendo sempre più credibile e legittimata proprio quell’idea diffusa dell’”uomo forte”, confortato sì ma non condizionato da una maggioranza parlamentare a “geometria variabile”.

D’altronde l’”offensiva giudiziaria” è sì iniziata, prima a governo giallo-verde, con l’indagine della procura di Milano sul caso “Mosca”, tutt’ora tenuta al caldo; e, con la richiesta dell’autorizzazione a procedere per il caso Diciotti. Ma ha raggiunto l’apice con il governo giallo-rosso, con la richiesta dell’autorizzazione a procedere, in ordine di presentazione, per i casi Gregoretti e Open Arms, mentre è stata chiusa dalla Procura di Milano l’istruttoria per la diffamazione di Carola sempre da parte di Salvini. Grandine, come sul capo di Berlusconi, anche su quello di Salvini. Nessun sospetto è lecito, anche se più di un sospetto sarebbe possibile, ricordando la registrazione del magistrato Palamara, già presidente di Anm e membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Più o meno essa suonava nel senso che per la sua stessa appartenenza ad una data corrente, lui non poteva che essere contrario a Berlusconi.

È ormai una opinione diffusa che nelle democrazie occidentali ci sia una pericolosa deriva a favore di una “giudiziarizzazione” della politica, quale regolata e istituzionalizzata nelle forme previste dalle carte costituzionali. Rendersi conto che si sono ormai oltrepassati i limiti fisiologi dovrebbe essere un compito comune, quale interpretato dal senatore Casini nel suo intervento al Senato, con un grido di allarme apparso non solo solitario ma anche assordante a fronte di una maggioranza silente e imbarazzata. Altrimenti, come non è equilibrata la situazione attuale, non lo sarà quella futura, una volta che ci sarà un cambio di maggioranza.

Il presente è non solo squilibrato in un senso, ma fautore di uno squilibrio in senso opposto, sì che il nostro sistema istituzionale, risulterà bel lontano da quello costituzionale, caratterizzato, oggi e domani, da un continuo sbilanciamento a monte e a valle, sì da favorire un sentimento del tutto relativo di che cosa sia un sistema democratico. Ma senza un sentimento comune non esiste alcun compromesso praticabile fra vincente e perdente , ciascuno disposto a prevaricare quando giunge al  potere.

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