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Salvini a processo: il Parlamento si arrende ancora al Partito dei giudici

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Non è mai un momento da celebrare quello in cui il leader dell’opposizione – e del primo partito nel Paese – viene mandato a processo dai voti della maggioranza di governo che spera così di levarselo di torno. Se poi questo accade in una democrazia occidentale c’è davvero da preoccuparsi. Altro che esultanze e hashtag #SalviniAProcesso. Il voto di ieri del Senato ha ricordato a tutti che il conflitto tra il potere giudiziario e quello legislativo – anzi, visto che Salvini all’epoca dei fatti legati alla Gregoretti era ministro, quello esecutivo – è ancora uno dei problemi principali che la nostra difficile democrazia deve affrontare. Lo farà mai?

Salvini ha ribadito più volte la volontà di farsi processare e di volere affrontare i giudici affermando il suo diritto da ministro dell’interno di schierarsi per la difesa dei confini così come gli hanno chiesto milioni di italiani. È chiara la volontà di trasformare il processo in un volano mediatico per massimizzare il suo consenso, polarizzando l’opinione pubblica così come gli è riuscito di fare nel recente passato in salviniani e anti-salviniani. Si tratta, a questo punto, di una scelta plausibile e legittima: di fronte a ben tre richieste di autorizzazione a procedere (tra poco arriva in Parlamento anche quella per la Open Arms) il leader della Lega si difende attaccando, ben sapendo che gli italiani conoscono ormai alcuni metodi di lotta politica della sinistra e dei 5 stelle. Ma ad andare a processo con Salvini ci sarà tutto il Parlamento che ieri, per l’ennesima volta, si è diviso sulla base delle convenienze politiche del momento e non ha saputo – né voluto – difendersi dall’invasione del potere giudiziario, accogliendo le richieste di autorizzazione a procedere nella speranza di lucrare un vantaggio politico nell’immediato. L’unica nobile eccezione al fazionismo del gregge è stata quella di Pierferdinando Casini, forse memore delle invasioni del passato.

Non dobbiamo mai scordarci del nostro passato, né della fine che hanno fatto alcuni uomini politici osteggiati dalla sinistra e premiati dal consenso popolare. Bettino Craxi è stato travolto dall’inchiesta di Mani Pulite morendo ad Hammamet impossibilitato dal tornare in Italia per operarsi per un tumore al rene (il magistrato che negò il salvacondotto umanitario voleva piantonare la sua stanza in ospedale: la stanza di un cardiopatico diabetico cui doveva essere asportato un rene). Silvio Berlusconi è stato travolto da un numero spropositato di processi e di avvisi di garanzia, il più famoso dei quali fu quello recapitatogli a Napoli il 22 novembre 1994 per corruzione, mentre presiedeva da presidente del Consiglio un vertice internazionale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata. Secondo voi che figura avrà mai fatto l’Italia in quell’occasione? (Berlusconi non fu neppure condannato per quel reato, tra l’altro).

Ma, in maniera ancora più celebre, la classe politica del nostro Paese ha lasciato che le sue prerogative venissero intaccate da alcuni magistrati che apparvero in tv nel 1994 per lanciare il loro pronunciamiento contro il decreto legge dell’allora Guardasigilli, Alfredo Biondi, che limitava la carcerazione preventiva. Diretta a reti unificate della conferenza stampa, decreto ritirato. Questi casi, che rivelano la natura politica e illiberale di una minoranza agguerrita di magistrati dovrebbe fare rizzare le orecchie a tutta la comunità politica e non solo. In fondo il potere legislativo è l’unico che deriva direttamente dal popolo, l’unico in cui può avvenire un vero e proprio ricambio ogni cinque anni, l’unico che convoglia la volontà degli italiani. Arrendersi, o, peggio ancora, lasciare che qualcuno miri a creare un Comitato di Salute Pubblica che scelga cosa vada più o meno bene al posto del corpo elettorale non è degno di una grande democrazia e di un grande Paese quale è l’Italia. Il voto di ieri, purtroppo, lo testimonia: Davigo non è solo, e in Parlamento ci sono tanti piccoli Bonafede disposti a seguirlo.