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Salvini rompe gli indugi e va all-in. Per chi invoca San Spread e fronti popolari il risveglio potrebbe essere traumatico

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Il Project Fear si complica: la crisi, possibili elezioni e vittoria di Salvini non spaventano l’agenzia di rating Fitch. Anzi…

L’avevamo scritto all’indomani delle elezioni europee, e della conferenza stampa in cui il presidente del Consiglio Conte ventilò l’ipotesi di dimettersi se i due vicepremier non avessero abbassato i toni: si apriva una fase politica del tutto diversa, una partita a scacchi non più tra Salvini e Di Maio, ma tra Salvini e Conte – e dietro di lui il Quirinale – con uno showdown elettorale da provocare, il primo, o da scongiurare, i secondi.

Paradossalmente, proprio il 34 per cento conquistato il 24 maggio metteva il leader della Lega di fronte a un bivio drammatico, con alternative entrambe ad alto rischio: proseguire con l’esperienza del governo gialloverde, subendo però un cordone sanitario sempre più stringente, a tal punto da logorarlo, o provare a chiamare una snap election per lanciare l’assalto a Palazzo Chigi, rischiando però di non ottenere il voto o vedersi scatenare contro l’inferno (Quirinale, stampa, procure, partito dello spread, capitali europee). Salvini ha deciso per l’all-in, affondando la lama nel ventre molle dei 5Stelle nel loro momento forse più difficile, la sconfitta sulla Tav, e subito dopo aver ottenuto la conversione in legge del decreto sicurezza bis. Evidentemente molti, sbagliando, hanno pensato che tutto si potesse risolvere al massimo con un rimpasto, o un Conte-bis…

Ma non crediamo che siano state decisive le distanze “irrimediabili”, su questo o quel punto dell’agenda di governo, con il partito dei “no”, della decrescita, il più contrario allo sviluppo che abbia mai governato il nostro Paese, essendo ormai il M5S arrendevole come un pugile suonato. Altri fattori hanno pesato sulla sua scelta: oltre ai rapporti di forza parlamentari che non corrispondono più a quelli nel Paese, la resa alla Commissione europea per evitare la procedura di infrazione, l’impegno a rientrare nell’1,8 per cento di deficit con la manovra di bilancio 2020, che praticamente esclude qualsiasi shock fiscale, il voto dei 5Stelle insieme a Pd e Forza Italia per la neo presidente Von der Leyen, i tentativi di sabotare la sua linea sull’immigrazione e le ong, le questioni 5G ed F-35 care a Washington e forse anche il caso “Moscopoli”… Insomma, il leader della Lega deve aver maturato la consapevolezza che restare al governo non sarebbe stata una passeggiata, ma uno stritolamento nemmeno tanto lento, un vicolo cieco in cui il suo 40 o poco meno per cento avrebbe fatto la fine di quello di Renzi.

Cosa succederà ora? Riuscirà Salvini a ottenere il voto? Ovviamente può succedere di tutto, ma proviamo a raccogliere qualche elemento per orientarci. I titoloni dei giorni scorsi sulla “finestra elettorale” chiusa a luglio sono un lontano ricordo. L’ipotesi di un governo Pd-M5S, pompata da editoriali e retroscena, si rivelerà probabilmente uno spauracchio agitato ad arte per spaventare Salvini e scoraggiarlo dal tentare la strada del voto. Certo, c’è chi ci sta lavorando, i “pontieri” e i mattarellidi non mancano, ma servirebbe una compattezza, per un lungo arco di tempo, che i due gruppi, divisi al loro interno e tra i quali corre una profonda e giustificata diffidenza reciproca, non sembrano affatto in grado di assicurare.

L’unica maggioranza possibile per prolungare la legislatura, cercando nel frattempo di disinnescare la Lega magari con una nuova legge elettorale puramente proporzionale, potrebbe essere quella che Lorenzo Castellani ha ribattezzato la “coalizione Ursula”, costituita cioè dai tre gruppi che al Parlamento europeo si sono già una volta ritrovati uniti, nel sostenere la candidatura di Ursula von der Leyen: Forza Italia, Pd e M5S. Ipotesi comunque difficilmente percorribile: rispetto ai precedenti evocati – su tutti quello del 2011 – siamo di fronte infatti a gruppi parlamentari molto più frammentati, all’interno dei quali gli interessi divergono, con leader che per diverse ragioni hanno uno scarsissimo controllo su di essi. La leadership di Di Maio è moribonda, in Forza Italia tira aria da “liberi tutti”, e a Zingaretti non conviene mettersi nelle mani di Renzi, che controlla una parte cospicua di truppe parlamentari, né degli inaffidabili grillini, quando può nutrire ragionevoli speranze di potersi riprendere parecchi voti in uscita dai 5Stelle. Probabilmente non sufficienti per vincere le elezioni, ma quanto basta perché il Pd torni ad essere l’unica alternativa a sinistra: non scontato a un anno e mezzo dallo shock del 4 marzo 2018.

Ma perché le condizioni per la “coalizione Ursula” si creino, oltre alle trame del Quirinale e alle pressioni europee, è necessario che venga in soccorso San Spread, che in queste ore infatti in molti stanno già invocando sui loro inginocchiatoi. Il Project Fear all’italiana funzionò benissimo nel 2011, ma nel Pd e in Forza Italia è ancora vivissimo il ricordo dell’alto prezzo pagato in termini di consensi per l’appoggio al governo Monti. E siamo sicuri che il contesto internazionale non sia troppo diverso da allora? Nel riportare la crisi politica italiana il Wall Street Journal ha scritto che “un nuovo governo guidato dalla Lega darebbe a Salvini mani più libere per tagliare le tasse e fare più deficit. Improbabile che le proteste dei funzionari Ue funzioneranno da deterrente, a meno che anche i mercati obbligazionari non si mettano di traverso. I mercati finanziari – conclude però l’articolo – finora hanno mostrato poca preoccupazione, perché gli investitori sperano che la Banca centrale europea sosterrà i titoli italiani accrescendo le misure di stimolo monetario per arrestare il rallentamento dell’economia dell’Eurozona”. Di ieri un altro dato negativo per l’economia tedesca: export -8 per cento.

La notizia di ieri sera è che l’apertura della crisi di governo, con la prospettiva di un voto anticipato e una vittoria dei sovranisti, non ha spaventato l’agenzia Fitch, che ha confermato il rating dell’Italia a BBB, con outlook negativo, lo stesso del febbraio scorso. L’outlook negativo riflette “l’alto livello del debito pubblico”, una crescita debole e “la crescente incertezza” legata all’attuale dinamica politica. Ma in caso di elezioni anticipate Fitch vede un “moderato potenziale positivo per la sostenibilità del debito a medio termine nel caso in cui un nuovo governo sia più stabile e abbia un orizzonte di pianificazione più lungo”, e porti avanti un mix di politiche “favorevole alla crescita”. L’agenzia lascia intendere che il giudizio attuale già scontava la possibilità che il governo gialloverde non sarebbe durato, prevede che non scatti alcuna clausola di salvaguardia, quindi che non ci saranno aumenti Iva, e che invece verrà introdotta una flat tax del 15 per cento, “nel programma della Lega”. E infine osserva che grazie alla politica accomodante della Bce il sentiment dei mercati obbligazionari nei confronti dell’Italia “è migliorato”.

La storia si ripete ma mai allo stesso modo, la creatività della politica italiana nelle crisi di governo non ha limiti, ma una cosa è certa: con la regia del Quirinale le proveranno tutte pur di sbarrare la strada a Salvini, quindi evitare il ritorno alle urne in autunno. Dovranno però tenere a mente il fattore tempo: quale che sia la soluzione, o meglio la toppa – e se è la partita per il Colle più alto quella a cui tutti pensano – dovrà reggere almeno fino al 2022, all’elezione del nuovo capo dello Stato, altrimenti rischierà di rivelarsi un boomerang. Pensate a quanto potrebbe ingrossare i consensi della Lega un governicchio che duri pochi mesi e che, nel frattempo, sia tornato al business as usual con le ong davanti alla Libia e si sia dovuto intestare la manovra 2020, sollevando Salvini dalla responsabilità di votarla o di scriverla. Dal suo punto di vista, il leader leghista ha ragione di temere questa manovra restando al governo con le mani legate e la prospettiva di un voto a primavera o comunque ravvicinato. La teme molto meno se riesce ad arrivare a Palazzo Chigi a ottobre, perché significherebbe aver vinto le elezioni e avere davanti a sé un orizzonte di anni prima del nuovo giudizio degli elettori.

Insomma, di maggioranze alternative ma solide, in grado di scavallare l’elezione del nuovo capo dello Stato, e magari anche governare benino, non ci pare di scorgerne in giro, e tutto sommato l’esito del voto non è mai scontato, gli elettori potrebbero punire chi ha staccato la spina a un governo ancora molto popolare (oltre il 50 per cento). Se invece l’idea è sbarrare la strada a Salvini buttando la palla in tribuna, con un Conte-bis o un Monti 2.0 sotto la pressione dello spread, dovrebbero prepararsi a pagare un conto salatissimo o a prendere in considerazione come sbocco finale inevitabile del loro piano una moratoria a tempo indeterminato delle elezioni – e non è escluso che qualcuno ci stia già pensando.