La visita di Matteo Salvini a Washington – definita “a major coup” da una rivista non certo di destra come The Atlantic – può rappresentare un game changer nella situazione di stallo della politica italiana che si è venuta a creare con l’esito delle elezioni europee. Dalle urne infatti, come noto, sono usciti ribaltati i rapporti di forza tra i due partner di governo. Un cortocircuito che mette a dura prova la tenuta dell’Esecutivo. E il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha molte ragioni per sentirsi irritato. La visita di Salvini, infatti, che nella capitale americana ha incontrato pezzi da novanta dell’amministrazione Trump, il vicepresidente Pence e il segretario di stato Pompeo, è una risposta implicita alla conferenza stampa nella quale il premier aveva richiamato i suoi vice all’ordine, minacciando di rimettere il suo mandato nelle mani del capo dello Stato.
È la seconda mossa di questa nuova partita, aperta dalle dichiarazioni del premier il 3 giugno scorso, che non si gioca più tra Lega e Movimento 5 Stelle, ma tra Salvini e Quirinale (Di Maio infatti, in questa fase, sembra allinearsi all’alleato proprio per evitare lo showdown), e che in poche settimane potrebbe portarci alla crisi del governo gialloverde.
“Il governo va avanti altri quattro anni”, rassicura Salvini, anche da Washington, ma la condizione non troppo dissimulata è: se si fa come dico io. Il leader leghista infatti si muove e parla sempre più da premier, dettando politica economica e politica estera, l’esatto contrario di quanto aveva chiesto Conte due settimane fa nel suo “messaggio”: evitare di lanciare proposte senza prima averne discusso in Consiglio dei ministri e lasciare a Palazzo Chigi e a Via XX Settembre la conduzione delle trattative con l’Ue per evitare la procedura di infrazione, senza intromettersi con “cacofonie”.
L’impressione è che Salvini sia in effetti intenzionato a proseguire con questa esperienza di governo, ma solo se gli viene riconosciuto il ruolo di leader de facto, vero dominus, solo se diventa il “suo” governo. Se può realizzare la sua agenda cannibalizzando l’alleato e riducendo a mero simulacro l’inquilino di Palazzo Chigi, chi glielo fa fare di tentare un all-in pieno di insidie? Per questo sta testando fin dove può spingersi. Solo che i paletti piazzati dal Colle e piantonati da Conte e Tria sono ben visibili e sembrano invalicabili, se non a parole.
Quindi, al tempo stesso, il leader della Lega sta scaldando i motori. Ed è indubbio che dalla due giorni americana ritorna molto rafforzato. L’interesse della Casa Bianca non è per il ministro o il vicepremier, non è per il rappresentante di questo governo, ma per il leader del primo partito italiano che, come tale, intravede come probabile interlocutore privilegiato, in Italia e in Europa, in un futuro molto prossimo. Tra le poche carte che potrà giocare nel suo all-in, da oggi Salvini può contare sul rapporto personale con l’amministrazione Trump: e non è poco.
D’altra parte, pur indebolita l’Italia mantiene un ruolo cruciale per un’amministrazione intenzionata a porre un argine, un freno ad una Ue germanocentrica – ruolo rafforzato dalla prossima uscita del Regno Unito e dalla debolezza di Macron in Francia. Si tratta di vedere ora se l’Italia vuole giocarlo, questo ruolo, ricavando dalla sponda (anche finanziaria) Usa un qualche preziosissimo spazio di manovra per uscire dall’angolo in cui si è cacciata in Europa.
Insomma, non c’è nemmeno partita con Bruxelles senza qualche amico a Washington. Per dirla in modo ancora più esplicito: assicurarsi di evitare il ripetersi dello scenario del 2011 è la conditio sine qua non per qualsiasi confronto o sfida in sede Ue.
Salvini sembra aver compreso l’opportunità che l’America di Trump rappresenta per l’Italia e la Lega. “L’Italia è il primo, più credibile, più solido interlocutore degli Usa nell’Unione europea”, ha dichiarato a Washington, “il più grande Paese europeo con cui gli Stati Uniti possono e vogliono dialogare”. Il leader leghista ha parlato di “visioni e soluzioni comuni” anche in politica estera, a partire da quella che ha definito “la prepotenza della Cina con l’Europa”, affermando di condividere le preoccupazioni Usa per i piani di Pechino, come quella Via della Seta cui l’Italia ha aderito: “Ma il business non è tutto, di fronte alla sicurezza nazionale non si transige”. Dolce melodia per le orecchie dell’amministrazione Trump.
Ma nell’attuale governo gialloverde quanti oltre Salvini e la Lega vedono questa opportunità? Praticamente nessuno. Dalla Cina all’Iran, passando per il Venezuela e gli F-35, in nessun modo il leader leghista può garantire a Washington un cambio di rotta del Governo Conte.
Abbassare le tasse è una priorità condivisa da molti, a parole, ma non fino al punto di andare allo scontro con l’Ue. Da Washington Salvini ha lanciato anche su questo la provocazione: l’Italia ha bisogno di una “manovra trumpiana“, in aperta sfida alle regole Ue. Il governo italiano, ha aggiunto, “non si accontenterà più delle briciole”, “l’Italia non è la Grecia, che l’Europa ha ammazzato”, “il taglio delle tasse si farà, con le buone o… con le buone”.
Gli hanno risposto sia il presidente del Consiglio: “L’Italia può permettersi la manovra che serve all’Italia, vorrei dire una manovra contiana, con una battuta. Non ci interessano manovre fatte altrove, qualunque questo altrove sia”… sia il ministro Tria: “Una manovra trumpiana implica avere il dollaro, e noi abbiamo l’euro”. Ma Salvini non ha rinunciato a controbattere: “Noi abbiamo l’euro e lo faremo con l’euro in tasca”. Anche sui minibot, bocciati da Tria: “I minibot sono uno strumento, un mezzo per raggiungere il fine del pagamento dei debiti dello Stato. Se il ministro ha un’idea diversa la porti al tavolo, altrimenti si fa quello che c’è nel contratto di governo e che ha approvato il Parlamento”.
Insomma, è più che evidente dalla visita e dalle dichiarazioni di Salvini a Washington e dai botta e risposta di queste ore, che le “raccomandazioni” di Conte sono già carta straccia… Che fa il premier, concilia? Oppure intende dare seguito alla minaccia di rimettere il suo mandato?
Tutto questo nelle stesse ore in cui via Twitter il presidente Trump iniziava a cannoneggiare Mario Draghi, la massima istituzione finanziaria Ue, che aveva appena ricaricato il suo “bazooka” monetario. Il presidente della Bce ha parlato di “un ulteriore stimolo” all’economia europea, necessario “in assenza di un miglioramento, al punto che sia minacciato il ritorno di un’inflazione sostenibile ai livelli desiderati”. E in tal caso, ha ricordato, il Quantitative Easing ha ancora “uno spazio considerevole”, “ulteriori tagli dei tassi e misure per mitigare qualsiasi effetto collaterale continuano a far parte degli strumenti a nostra disposizione”.
Parole che hanno suscitato l’immediata reazione del presidente Usa:
“Mario Draghi ha appena annunciato che potrebbero arrivare altri stimoli, che hanno immediatamente fatto calare l’euro rispetto al dollaro, rendendo ingiustamente più facile per gli europei competere con gli Usa. Sono anni che vanno avanti così insieme con la Cina ed altri… Molto scorretto nei confronti degli Stati Uniti”.
A cui ha replicato Draghi:
“Ho appena detto, un momento fa, che siamo pronti a usare tutti gli strumenti necessari per riportare il tasso d’inflazione al nostro obiettivo. E non abbiamo come obiettivo il tasso di cambio”.
Non sarà la manipolazione del tasso di cambio l’obiettivo, ma è uno degli effetti. L’euro è sopravvalutato molti Paesi dell’area, tra cui l’Italia, ma sottovalutato per la Germania. Dell’11-16 per cento secondo l’Fmi. Del 10-20 per cento secondo il Dipartimento del Tesoro Usa. Addirittura del 22 per cento secondo il Big Mac Index.
I competenti non fanno che ripeterci che non dobbiamo rimpiangere l’epoca delle svalutazioni della liretta – con qualche ragione, visti gli abusi – ma ironia della sorte, con l’euro abbiamo ancora a che fare con il vizio italiano delle svalutazioni competitive… Peccato si tratti proprio del loro beniamino.