Gli sviluppi dei negoziati tra Regno Unito e Unione europea per regolare i rapporti tra le parti dopo Brexit hanno generato la stessa confusione di un sasso lanciato in piccionaia. Non solo tra le file europee, ma anche all’interno dello stesso Partito conservatore guidato da Boris Johnson che, prese carta e penna, ha messo nero su bianco le sue intenzioni con un articolo pubblicato sabato scorso dal Daily Telegraph e dalle cui colonne il primo ministro britannico ha sempre assicurato nei panni di giornalista opinioni destinate a riscaldare il dibattito, qualsiasi fosse l’argomento trattato.
Un populista che firma accordi pensando già a come rimangiarseli: è la conclusione più ovvia tra gli europeisti che ancora faticano a digerire l’idea che qualcuno possa uscire dal gruppo. Un leader scapestrato che per assicurarsi una solida maggioranza ha siglato lo scorso ottobre un Whitdrawal Bill senza crederci, buono giusto per la campagna elettorale. Ma è davvero così? Leggendo l’intervento di Johnson si possono trovare due punti chiave che forniscono un’interpretazione diversa: il primo riguarda l’integrità del Regno, il secondo l’idea di Brexit che Johnson ha più volte promosso e che continua a ricercare.
Il nodo centrale della questione resta il confine tra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord, con quest’ultima destinata a fare da anticamera tra il mercato britannico e quello dell’Unione. Trovandosi in una posizione scomoda, con un “braccio legato alla schiena”, ricorda il primo ministro, Londra aveva concesso terreno su alcuni aspetti, specie sulla possibilità dell’Irlanda del Nord di rimanere allineata alle leggi europee per almeno quattro anni e permettendo all’assemblea locale di scegliere se prorogare tale status alla scadenza dei termini, allo scopo anche di garantire tranquillità ad un confine “bollente” e riappacificato solo con gli accordi del Venerdì Santo del 1998.
Con le trattative in stallo per stabilire se quella che si consumerà a fino 2020 sarà una No deal Brexit o meno, l’Unione europea ha applicato la strategia adottata ai tempi del governo di Theresa May, tentando di infondere timore nella controparte, ovvero ipotizzando di imporre tariffe doganali e di impedire il trasporto di prodotti alimentari tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord e ammettendo dunque l’esistenza di due stati diversi. Divide et impera. A fronte anche del riacutizzarsi delle spinte indipendentiste scozzesi, Johnson ha sbaragliato le carte, minacciando di rivedere interamente i piani e portando Bruxelles allo scoperto: “Minando l’unione della nazione, tale interpretazione danneggerebbe seriamente la pace e la stabilità dell’Irlanda del Nord”.
Alcune reazioni scomposte dal Continente lasciano intendere che Johnson abbia colpito nel segno, mentre Johnson è tornato alla carica lunedì pomeriggio intervenendo ai Comuni per giustificare l’introduzione del contestato Internal Market Bill, provvedimento che punta a garantire che gli scambi tra le four nations (Inghilterra, Galles, Scozia e, appunto, Nord Irlanda) avvengano senza barriere doganali, quindi in aperta contrapposizione con le posizioni europee. “Non possiamo tollerare che l’Ue tenti di dividere il nostro Paese”, ha messo in chiaro a Westminster.
Un solo stato, senza parti di esso soggette alla legislazione europea, e intenzionato non a fare la guerra a partner commerciali strategici. La posizione del leader conservatore a tal proposito sono sempre state chiare, un mix tra idealismo e pragmatismo: Johnson vuole un accordo inter pares, ma sa che lo scenario di un No Deal non va totalmente escluso perché i patti si raggiungono in due o non si siglano. L’obiettivo finale è di costruire un nuovo rapporto di libero scambio – Londra e Tokyo ne hanno appena siglato uno -, senza che una parte assoggetti l’altra, nato quindi sulla base del principio della concorrenza che dovrebbe gratificare le anime liberali europeiste che, al contrario, ancora masticano amaro per l’esito del referendum del 2016 e le cui speranze di una riedizione del voto sono miseramente naufragate.
A Johnson ora tocca il compito di mantenere l’ordine tra le proprie fila per approvare l’Internal Market Bill, garantendo ai parlamentari la possibilità di votare caso per caso qualora un ministro volesse avvalersene. All’Unione europea tocca scegliere se condurre in porto quanto previsto originariamente dal Withdrawal Bill o accettare una separazione senza accordi con una nazione che vuole preservare la propria integrità territoriale. Non una cosa da poco, insomma. Di certo non il capriccio di un premier infantile.