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Se in Nigeria e Marocco si vive meglio che in Italia: parola di migranti…

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Accade spesso che piccoli episodi gettino luce su malesseri più grandi. Il sottoscritto ne ha avuto prova la settimana scorsa a Genova, città dove insegna come docente nell’ateneo locale.

Ho l’abitudine di consumare spesso un veloce spuntino in un bar del vasto centro storico del capoluogo ligure, poco distante dall’università e a due passi da Via Lomellini, strada storica dove si trova, tra l’altro, la casa natale di Giuseppe Mazzini, ora diventata Museo del Risorgimento.

Entro dunque nel locale all’ora di pranzo e trovo le proprietarie impegnate in un fitto dialogo con due signore extracomunitarie. La prima è marocchina, vestita sobriamente e con il classico velo islamico sul capo che le lascia però il viso scoperto e ben visibile. La seconda è nigeriana con un abito sgargiante ma non troppo.

La conversazione è così fitta che attendo un bel po’ per farmi servire il solito tramezzino con bicchier d’acqua e caffè. Il dialogo è assai civile, niente urla anche se i toni di voce sono un po’ alti. Il tema è interessante e attuale: “Come si sta in Italia?”.

Sento dapprima la donna marocchina, sposata con marito e figli a Genova, esaltare il suo Paese. Non – si badi bene – le bellezze naturali e artistiche del Marocco. Su queste penso che nessuno nutra dubbi.

L’esaltazione riguarda invece il sistema sociale e la qualità della vita di cui godono gli abitanti della nazione del Maghreb che, secondo la suddetta signora, sono superiori ai nostri. In sostanza, pare che a Rabat, Casablanca e dintorni si stia benissimo: sono posti ideali per vivere.

Interviene poi la nigeriana, lei pure con figli e marito qui. Stessa solfa. In Nigeria si vive benissimo e la qualità della vita è alta. Unico elemento che Genova e l’Italia possono vantare come vantaggio nei confronti del Paese africano è il clima, poiché è assodato che in Nigeria il caldo è eccessivo. Per fortuna, insomma, la brezza marina proveniente dal vicinissimo Porto Antico – quello di Cristoforo Colombo – ci salva da un giudizio che, altrimenti, sarebbe totalmente negativo.

Non solo. Le due donne non si peritano di far notare agli italiani presenti che, nei rispettivi luoghi d’origine, l’economia corre a ritmi elevatissimi, mentre nel “bel paese”, a dir poco, langue.

E come dar loro torto? Tanto Marocco quanto Nigeria hanno un Pil in forte crescita, mentre tutti sanno com’è attualmente ridotto il nostro. Da questo punto di vista – e non solo da questo – noi siamo un Paese in declino. Marocco e Nigeria, al contrario, rientrano a pieno titolo nel novero delle nazioni emergenti.

Allora le proprietarie del bar si azzardano a porre un quesito che più scontato non potrebbe essere. “Se le cose stanno così, perché siete venute qui e ci restate?”. Le due signore africane hanno il primo momento di esitazione nel loro discorso che prima era trionfante.

In un italiano un po’ incerto tirano in ballo la faccenda degli asili nido in cui quotidianamente portano i loro figli. Pare infatti che in Marocco scarseggino, e che in Nigeria, con qualche rara eccezione nella capitale Lagos, proprio non ci siano. Ammettono dunque che, in patria, qualche problemino l’avrebbero.

Qui finisce il piccolo episodio. Le bariste, non senza una vena d’ironia che non si capisce fino a che punto venga percepita, riconoscono allora che ben farebbero gli italiani a emigrare in Marocco o in Nigeria. Troverebbero di certo un lavoro e potrebbero godere dell’alta qualità della vita locale.

Le signore straniere annuiscono sorridenti e soddisfatte e se ne escono assieme. Il sorriso sorge spontaneo anche sulle labbra mie e delle proprietarie e altrettanto spontanei sono i commenti comuni: “Ma perché questi vengono qui?”, e “perché non tornano a casa loro?”. Mistero grande, o buffo come avrebbe detto il Nobel Dario Fo.

Forse siamo qualunquisti o, ancor peggio, politicamente scorretti. Ma nessuno ci toglie l’impressione che, nonostante le continue esternazioni di Laura Boldrini e compagnia, noi italiani veniamo presi in giro dai nostri ospiti. Ammesso che definirli “ospiti” sia, per l’appunto, politicamente corretto.