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Se l’assalto al diritto di proprietà arriva anche dal ministro della giustizia (ed ex presidente della Consulta) Cartabia

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In “Dei delitti e delle pene”, Cesare Beccaria vergò una frase destinata a suscitare un ampio e acceso dibattito: “di quella infelice parte degli uomini a cui il diritto di proprietà (terribile, e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza”, scrisse il giurista milanese.

La frase, meno nota rispetto all’impianto proto-garantistico in senso carcerario dell’opera di Beccaria, più familiare e consono questo alla sensibilità dei penalisti, causò la severa perplessità di Jeremy Bentham che pure di Beccaria era un lettore e un estimatore.

Il filosofo inglese, giustamente, sottolineò la potenzialità eversiva dell’ordine sociale di una simile asserzione, la quale pur originando dalla polemica contro il giusnaturalismo finiva per incrinare la potenza quasi ierofanica di un diritto su cui si era basata, senza tema di smentite, la civilizzazione umana.

Una forza dirompente che non ha mancato di sottolineare Stefano Rodotà che sin dal titolo del suo noto studio sul diritto di proprietà ha ripreso la locuzione e la caratterizzazione “terribile” del diritto di proprietà, scandagliandone la presunta consistenza cedevole e friabile a fronte della sua “socializzazione”.

Eppure, di terribile la proprietà ha ormai solo una vaga, evanescente e infiacchita consistenza: la stessa Costituzione repubblicana, patto assiologico che pur innervato di sfumature liberali sembra atteggiarsi comunque come un insieme di disposizioni proteso contro il liberalismo puro, all’articolo 42 sdilinquisce il portato della funzione storica della proprietà come perno edificatore della civiltà, facendolo recedere a un diritto non solo limitabile, violabile, espropriabile, ma soprattutto innestabile in un complesso tendenzialmente pianificabile in funzione sociale e collettivistica.

Scompare del tutto la eco rivelatrice delle notazioni di Ludwig von Mises che nella proprietà vedeva il portato essenziale del farsi civiltà di un ordine sociale e dell’umanità stessa, si annebbia il suono delle massime di John Locke e della rivoluzione statunitense, e si affaccia all’orizzonte una ancillarità della proprietà rispetto un insieme, composito e multiforme certo, ma comunque votato alla “giustizia sociale” e alla redistribuzione, che sin da subito colora la proprietà di una caratterizzazione recessiva, secondaria, trascurabile quasi.

Non può stupire, dato il contesto, come in ogni crisi sociale, vera o presunta, il primo diritto sacrificato sia sempre e comunque la proprietà. D’altronde si tratta di un moto di faglia, complesso e dissonante che lungo la dorsale dei beni comuni, della funzionalizzazione sociale della proprietà privata, ha portato a ritenere che un immobile, un terreno, una industria, se non immediatamente messi a rendita e utilizzati possano essere “espropriati dalle forze che si agitano dal basso”, ovvero leggasi occupati manu militari da gruppi più o meno organizzati.

Viene chiamato “uso condiviso” della proprietà, “luogo del possibile”, “spazio aperto”, ma dietro la suadente retorica post-marxista si cela solo l’esproprio violento della proprietà altrui.

Non c’è nulla di sussidiarietà orizzontale, è un carnevale di espropri proletari guardati con un certo compiacimento da classi intellettuali e da una parte della politica sempre a caccia di nuovi elettori.

E se anche una raffinata e sensibile studiosa, ora ministro della giustizia, la professoressa Marta Cartabia, già presidente della Corte costituzionale, in audizione parlamentare sancisce la tendenziale sacrificabilità dei diritti dei proprietari a fronte delle ragioni degli inquilini morosi, con tanto di sentenza di sfratto, la strada sembra tracciata e il dado davvero tratto.

Perché, facendo leva sulla (presunta) asimmetria rispetto alle ragioni dei proprietari, se da un lato si inferisce la necessità di tutelare in maniera decisamente più forte gli inquilini considerati ontologicamente parte debole, dall’altro lato non si considera di contro mai, in sede di bilanciamento tra distinti diritti, una effettiva proporzionalità e un canone di ragionevolezza tra le distinte ragioni in gioco: in teoria, si afferma che si bilancerà il dramma sociale di chi “rischia di finire sul marciapiede, senza più una casa” con la “rendita” o il “profitto” dei proprietari, ma già ex ante si effettua un giudizio di valore nella ricerca semantica di termini che in re ipsa indicano una presa di posizione pregiudiziale e pregiudizievole.

Da un lato, la vittima da compatire e da risarcire della sua minorità sociale. Dall’altro, il fortunato profittatore.

Il blocco degli sfratti, che ormai si dipana stancamente da mesi e mesi e che sta logorando i proprietari degli immobili, fino ad assurgere all’estremo ontologico di una espropriazione tacita e silente, è un provvedimento che nel nome di un frainteso senso di giustizia sociale non mira tanto a tutelare gli inquilini o i soggetti deboli quanto a punire i proprietari, considerati comunque come dei profittatori o dei soggetti talmente ricchi da poter disporre di un secondo (o terzo, o quarto) immobile rispetto a quello di residenza.

La situazione è talmente paradossale che nonostante pronunce giudiziali di rilascio, nonostante molti inquilini pluri-morosi abbiano perso qualunque forma di diritto di stanzialità all’interno degli immobili da anni prima del deflagrare della pandemia, si afferma che le ragioni degli inquilini siano comunque prevalenti rispetto a tutte le altre. Naturalmente si tratta di una fallacia sia in termini empirici, sia in termini teorico-generali: dal primo punto di vista, basterebbe ripercorrere le spesso strazianti “Lettere dalle vittime del blocco sfratti” che meritoriamente Confedilizia va pubblicando da mesi, uno spaccato vivo e pulsante di proprietari che lungi dallo speculare riponevano la loro esistenza e la loro sussistenza negli affitti e in quegli immobili.

Questi individui, queste famiglie, cessano di meritare empatia, attenzione politica, conforto, perché sembrano situarsi lungo la direttrice sbagliata della considerazione istituzionale: sono comunque dei “privilegiati”, in quanto proprietari, e non importa quanto per loro essenziale sia percepire un affitto perché rimangono comunque, nella vulgata collettiva, la parte sbagliata.

Ripercorrendo le iniziative legislative e governative che hanno sedimentato la rendita di posizione di inquilini morosi ormai resisi occupanti ci si rende conto di quanto disvalore ammanti l’idea proprietaria.

E dal punto di vista teorico-generale, l’assalto alla logica e alla razionalità proprietaria è una discesa verso il baratro dell’assistenzialismo più inerte e grigio: perché solo in forza del diritto di proprietà, declinato nelle sue molteplici sfumature, possiamo avere in senso storico la fisionomia reale di un progresso sociale.

Lasciamo da parte, per un istante, l’ambito immobiliare. Caliamoci nel cuore della pandemia.

È il diritto di proprietà, sempre lui sì, a darci i vaccini, non la redistribuzione in funzione di giustizia sociale dei brevetti che se laddove malauguratamente vi fosse stata avrebbe paralizzato la ricerca medica e scientifica: immaginate il funzionario pubblico a smanettare coi vaccini, il “vaccino pubblico” slegato dal diritto di proprietà, e pensate a quello spirito bolso che permea le amministrazioni e che Teodoro Klitsche de la Grange ha icasticamente ed efficacemente definito “funzionarismo”.

Ma immaginate soprattutto una platea immane di “cittadini”, svuotati di senso politico, di arendtiana vita attiva, e ridotti a passivi sudditi sussidiati generosamente con bonus, mancette, redditi e soprattutto con abitazioni “espropriate” fattualmente ai loro legittimi proprietari: finirebbero appunto per cessare di potersi dire veri cittadini, preda di quella “mente servile” narrata da Kenneth Minogue, il quale nel capitolo “Il progetto di livellare il mondo” del suo volume “La mente servile – la vita morale nell’era della democrazia”, sottolinea la funzione culturalmente diseducativa della tassazione in mera funzione staticamente redistributiva, laddove la redistribuzione è larvatamente premiale per il proprio ceto di riferimento elettorale.

Similmente ad un utilizzo irrazionale della tassazione, l’annichilimento dei diritti dei proprietari diviene cardine servente per una feudalizzazione della società, allo scopo di costruire non più un progetto vivo e attivo quanto solo un insieme anodino, grigio, inerte di gruppi di elettori-sudditi a cui fornire denaro, servizi e case, il tutto a danno degli altri ceti.

L’attacco alla proprietà è prima di tutto un attacco ad un progetto evoluto di ordine sociale: è un incentivo alla degenerazione delle relazioni interpersonali, canto della miseria elevata a sistema (im)morale, un sistema che deve annegare nella palude, e verso il basso, chi cerca mediante inventiva, innovazione, spirito di azione, di elevarsi.

Una equa distribuzione della miseria, piuttosto che una ristrutturazione coerente del patto sociale, il trionfo di quel pernicioso “egoismo di gruppo” contro cui F. A. von Hayek aveva ampiamente avvertito nel suo “Il sistema politico di un popolo libero”.

E c’è poi un’ulteriore, cristallina deriva di questo sgretolamento dei diritti proprietari: come ricorda Murray N. Rothbard in “Per una nuova libertà”, il diritto dei proprietari si basa sulla valorizzazione dell’individuo e della sua libertà, mentre al contrario le forme variamente definite ed immaginate di giustizia sociale si basano su assiomi collettivistici di controllo capillare di un potere centrale esperito sugli individui stessi.

In questo senso la proprietà è a tutti gli effetti un paradigma di sviluppo e di libertà. Negarla, al contrario, è la strada, lastricata certo di belle parole e di buone intenzioni, che conduce all’inferno della tirannia.