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Se l’Unione europea arriva in soccorso del regime iraniano mettendo in pericolo le nostre imprese

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L’Iran sta perdendo terreno a livello regionale e le sanzioni americane stanno avendo un effetto diretto sull’economia del Paese, mettendo in seria difficoltà il regime degli ayatollah, ormai totalmente incapace anche di controllare la diffusione del coronavirus.

Grazie alla durissima posizione dell’amministrazione Trump, il regime iraniano è stato costretto a tagliare i fondi ai suoi proxies regionali, favorendo parallelamente il dialogo tra Israele e il mondo arabo, che ha poi portato agli Accordi di Abramo tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, a cui presto probabilmente si aggiungeranno altri Paesi musulmani. Senza considerare gli effetti positivi indiretti, come l’inizio dei negoziati tra Israele e Libano per risolvere la disputa sui confini marittimi, nonostante la prevedibile contrarietà di Hezbollah e Amal.

Mentre gli Stati Uniti ottengono questi risultati nei confronti di un regime sostenitore del terrorismo internazionale e responsabile di indicibili abusi e violazioni dei diritti umani, cosa decide di fare l’Unione europea, la cui diplomazia è guidata dall’Alto rappresentante Joseph Borrell? Decide di andare esattamente nella direzione opposta. Con la scusa dell’accordo sul programma nucleare (Jcpoa), la Commissione europea ha lanciato due strumenti – denominati “Due Diligence Helpdesk” e “Sanction Tool” – al fine di sostenere le operazioni delle piccole e medie imprese europee nella Repubblica Islamica.

Ovviamente, si tratta di operazioni legittime, non vanno contro le sanzioni sinora approvate. Ma sappiamo bene che fare affari in Iran significa non sapere con chi veramente si ha a che fare e si firmano accordi, e rischiare seriamente che il proprio prodotto venga acquistato per un dual use. Con l’effetto indiretto di rischiare di finire direttamente nella lista delle sanzioni secondarie Usa. Un rischio enorme per le imprese italiane, che hanno proprio negli Stati Uniti il primo partner commerciale.

Tutto questo senza contare che anche l’alibi dietro cui la Ue si trincera per giustificare il business con l’Iran – ovvero salvaguardare il Jcpoa – non regge più: perché come attestato dalla Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), il regime iraniano non sta rispettando quanto previsto dall’accordo nucleare del 2015, ormai da anni. Solamente grazie alle informazioni di intelligence occidentali – particolarmente quelle israeliane – l’Aiea è riuscita a costringere il regime iraniano a far entrare i propri tecnici in due impianti nucleari segreti, mai dichiarati dalla Repubblica Islamica.

Il nuovo direttore dell’Aiea, Rafael Grossi, ha pubblicamente affermato che l’Iran non ha ancora la “quantità significativa” di uranio necessaria per costruire la bomba, ma sta arricchendo l’uranio in quantità molto più alta di quella permessa dall’accordo. Nell’ultimo report Aiea, era scritto chiaro e tondo che Teheran è in possesso di 2.105,4 chilogrammi di uranio arricchito, ovvero di oltre 202.8 chilogrammi in più rispetto a quanto previsto dal Jcpoa. Tra l’altro, si tratta di uranio arricchito al 4,5 per cento, ovvero sopra il 3,5 per cento considerato basso arricchimento e verso l’arricchimento al 20, considerato la fase intermedia verso l’arricchimento al 90 per cento necessario per costruire la bomba nucleare.

A dispetto di questi dati, l’Ue ha deciso comunque di sostenere senza condizioni il business con la Repubblica Islamica. Una scelta che delude, ma non sconvolge, date le note posizioni di Joseph Borrell e soprattutto di alcuni dei suoi collaboratori, come l’italiana Nathalie Tocci, da sempre a favore di un rapporto senza pre-condizioni con il regime iraniano.

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