Ci mancavano le accuse di razzismo a un microrganismo. Ora non mancano più, perché, per quanto sia incredibile doverne prendere atto, sono arrivate. A fare da apripista, senza grosse sorprese, il New York Times, con un articolo che parla di “iniquità razziale del coronavirus”, rilanciato con commenti dolenti di maniera come quello di Amy McGrath (candidata al Senato in Kentucky, Democratica, bianca, ha scritto “Il colore della tua pelle non dovrebbe essere una condanna a morte”), prontamente ritwittato dalla bella-e-brava Rula Jebreal.
Venendo al merito, il New York Times, in un pezzo firmato addirittura a dieci mani, scrive che “i neri e i latini sono stati colpiti in modo sproporzionato dal coronavirus in modo diffuso in tutto il Paese, in centinaia di contee nelle aree urbane, suburbane e rurali e in tutte le fasce d’età. I latini e gli afroamericani residenti negli Stati Uniti hanno avuto tre volte più probabilità di infettarsi dei loro vicini bianchi”. Quindi viene data la parola al sindaco nero di Kansas City (Missouri): “Il razzismo sistemico non si limita a testimoniare se stesso nel sistema giudiziario criminale”, ha affermato Quinton Lucas. A quanto pare, il “razzismo sistemico” ha infettato anche i virus.
La questione – che prende le mosse da un report del Cdc (Center for Disease Control and Prevention) – è stata poi ripresa anche da un altro Times, quello di Los Angeles, che maldestramente umanizza il coronavirus, scrivendo che “non sta giocando sportivamente dal punto di vista della razza: toglie la vita a neri e latini prima che ai bianchi”.
E pensare che la vera spiegazione della maggiore incidenza del coronavirus su alcune fasce di popolazione è presente in entrambi gli articoli, ma, non essendo utile alla causa, viene seppellita tra le righe e ricoperta di sovrastrutture ideologiche: “Gli esperti – scrive il New York Times – indicano le circostanze che hanno reso i neri e i latini più propensi dei bianchi a essere esposti al virus: molti di loro hanno lavori di prima linea che non consentono di lavorare da casa, utilizzano il trasporto pubblico o vivono in appartamenti angusti o in case multigenerazionali”. “Una possibile spiegazione – riecheggia, sempre in sordina, il Los Angeles Times – è che Sars-CoV-2, il coronavirus che causa il Covid-19, si stia diffondendo maggiormente tra questi gruppi perché hanno maggiori probabilità di essere impiegati come lavoratori essenziali in lavori che rendono più difficile il distanziamento fisico, hanno scritto gli autori del report”.
Dunque, non è questione di razza, ma di stile di vita. Di povertà. La povertà, una livella che, come la malattia e la morte, non tiene in considerazione il colore della pelle. Un tema che dovrebbe unire e non dividere. Ma combattere la povertà non è di moda. Sottolineare che siamo tutti esseri umani sulla stessa barca alla deriva non fa comodo alla nuova Inquisizione. Meglio accusare anche il coronavirus di razzismo ed esacerbare lo scontro, in una guerra tra poveri fomentata e cavalcata da propagandisti senza scrupoli.