Se la separazione dei poteri è violata a perdere è il Paese. Ma vale anche per i magistrati

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Dopo la diretta Facebook in cui apriva la lettera contenente l’avviso di garanzia per il caso Diciotti, Salvini è di nuovo al centro delle polemiche. Giustamente diranno alcuni. Certo, perché contrapporre due corpi dello Stato sulla base della legittimazione popolare lede i princìpi costituzionali. Aprire un conflitto tra magistratura non elettiva e potere esecutivo elettivo è sicuramente una forzatura. Non a caso Mattarella ha ricordato che i politici non sono mai al di sopra della legge, evidenziando che i giudici traggono la propria legittimità dalla Costituzione. Singolare coincidenza ha voluto che questo discorso fosse pronunciato durante la cerimonia per il centenario della nascita di Scalfaro. Un presidente della Repubblica che nel corso di Mani Pulite usò l’enorme consenso popolare nei confronti del Pool di Milano per sostenere apertamente le inchieste della magistratura. Anche quando erano in conflitto con la carta costituzionale. Basti pensare alla violazione sistematica dell’articolo 27, relativo alla presunzione di non colpevolezza, e all’utilizzo della carcerazione preventiva al fine di estorcere confessioni.

La questione, dunque, non è semplice come sembra e il leader della Lega non è l’inventore dell’uso strumentale della cosiddetta volontà popolare.

Basti ricordare cosa accadde tra il 1992 e il 1994 per capire che la legittimazione popolare venne utilizzata per giustificare un’azione giudiziaria fuori dal comune, volta a scardinare e distruggere l’intero sistema dei partiti (ad eccezione del Pci-Pds). Ovviamente all’inizio degli anni Novanta la corruzione era massicciamente diffusa e i partiti erano agonizzanti. Serviva una scossa per innovare un sistema istituzionale ormai sulla via del tramonto. E dove la politica non arrivò, arrivò la magistratura. Un’azione giudiziaria straordinaria fu possibile grazie al sostegno della stragrande maggioranza degli italiani. Con Di Pietro paragonato a Maradona, a cui si chiedeva di arrestare, senza distinzione alcuna, tutta la classe politica.

Un articolo di Giulio Anselmi, pubblicato sul Corriere della Sera nel maggio del 1992, aiuta a ricordare il clima di quel periodo e la forza travolgente del consenso popolare:

“Sembra di assistere ad una straordinaria partita. Ad ogni arresto, fragorosi olé di entusiasmo si levano dall’arena metropolitana. Un tifo da stadio circonda l’inchiesta giudiziaria condotta forse con maggiore rigore. Il sostituto procuratore Di Pietro, che ne regge le fila, a dispetto delle sue cautele e delle esigenze stesse del processo, viene trasformato dall’immaginario collettivo in goleador, torero, gladiatore solo in campo contro i cattivi. I cattivi, manco a dirlo, sono i politici, senza eccezione, colpevoli di aver saccheggiato Milano e il Paese per i loro interessi di partito e di famiglia, incapaci, come i sovrani assoluti di una volta, di distinguere cassa pubblica e denaro privato. Contro di loro […] si sbizzarrisce la fantasia della gente, nelle conversazioni di salotto, nelle chiacchiere dei bar, nelle poche parole scambiate sul tram e in metropolitana: taglio della mano come in Arabia, o gogna in piazza come nel Medio Evo?”

E così le tante forzature del Pool di Milano furono più o meno accettate perché la gente (il popolo a cui si appella il leader della Lega) apprezzava il Dipietrismo.

Quel che sta accadendo oggi con Salvini non è un processo dissimile, anzi. Si sta rovesciando quel che accadde venticinque anni fa. Il ministro degli interni è in grado di attaccare la magistratura perché sente il sostegno popolare. Buona parte degli italiani, infatti, ritiene ingiusta l’inchiesta e appoggia l’operato del Viminale. Dal supporto ai magistrati si è passati al sostegno della politica, forse a causa dell’Odissea berlusconiana.

E in tutto questo processo il Paese perde. Perde perché la separazione dei poteri è stata messa in discussione più volte e da più parti, perde perché questo rapporto patologico non permette l’equilibrio fondato sul sistema liberale del check and balance. E finché non sarà ristabilita la normale dialettica tra potere esecutivo e giudiziario l’Italia sarà schiava dell’ambiguo concetto di volontà popolare: come può esistere un’unica volontà per 60 milioni di italiani? Mistero.

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