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Sergio Marchionne, bastano i meriti che gli spettano: un uomo vero in mezzo a nani da giardino

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Ogni metà di luglio, da dodici anni, a Porto San Giorgio nelle Marche si tiene un festival delle auto storiche chiamato “Moda e Motori”: mentre sfilano una dopo l’altra quaranta, cinquanta macchine dai tempi di Buster Keaton fino alla Milano da bere e oltre, e ne scendono modelle fasciate in abiti contemporanei, si dipana il racconto del Novecento industriale alla luce delle grandi conquiste della tecnica, del design automobilistico e dell’alta sartoria. Il Secolo Breve, che due guerre mondiali non hanno potuto fermare, impedirgli di mettere insieme più scoperte, più conquiste, più progresso, più futuro che in tutti i secoli precedenti. A saperlo, questa volta potevamo dedicarlo a Sergio Marchionne, manager del Novecento, dell’automobile, uomo senza frontiere e senza limiti autoimposti, di conquiste impensabili, giusta l’intuizione di Mario Sechi: “Mentre Elon Musk non riusciva a far funzionare la sua catena di produzione per poche migliaia di modelli di Tesla, Marchionne ricostruiva l’impero dell’automobile americana e salvava una decotta industria italiana”.

Ma nessuno fra i cinquemila del pubblico e i duecento partecipanti della kermesse di auto d’epoca sospettava quello che già si andava consumando. Sono stucchevoli, al limite dell’insopportabile le celebrazioni di un protagonista che sta lasciando un mondo cambiato anche per la sua opera, la sua determinazione. Sono patetiche e grottesche la falsa familiarità, gli accenti da prefica, l’esibizionismo avvilente, l’attribuzione di doti salvifiche, profetiche: basta riconoscere quello che c’era, che rimane, la forza di una visione, la serietà, la durezza quando occorre, la capacità sempre di ricordare le origini umili, provinciali. Ecco cosa è stato Sergio Marchionne. Un provinciale del Novecento, fantasioso e diffidente, uno che non si è accontentato dei confini nei quali era nato, cresciuto, uno che fino all’ultimo ha spostato l’asticella dell’ambizione non autoreferenziale, non soltanto per sé.

Non certo “uno di noi, uno come noi”: Marchionne era arrivato alla schiatta di quelli che stanno nell’Olimpo industriale e finanziario e viaggiano ad altezze inconcepibili per i “noi” che lavorano, che consumano, che subiscono le scelte di quelli come Marchionne. Uno di noi no, uno che però potevamo avere l’illusione di capire, di intuire, quello sì. Non un alieno come la casa reale degli Agnelli i cui discendenti, ed è la prima volta, si ritrovano orfani di un loro dipendente che era anche il loro faro.
Chi Marchionne non lo amava, chi aveva motivi per nutrire un astio livoroso, in queste ore celebra il suo strazio in modi anche meschini, riassunti dalla copertina del Manifesto, giornale che continua a godere di una qualche fama, e di qualche pubblico sussidio, per titoli che si vorrebbero irriverenti e geniali. Altri fanno i conti della serva, gli attribuiscono falcidie di lavoratori e il deserto industriale di cui vaneggia il distruttore della sinistra Bertinotti, quanto a dire che equivocano la situazione italiana, che scambiano gli effetti con le cause ma nel loro sofisticheggiare non trovano accordo sui numeri, sulle narrazioni antagoniste, anticapitaliste e per zittirli bastano un paio di riscontri terra terra: Marchionne ha raccolto la Fiat coi libri sulla soglia del tribunale e ne ha decuplicato valore e dimensioni globali; ha messo mano in Ferrari, e la scuderia del Cavallino ha ricominciato a vincere dopo troppe stagioni imbarazzanti.

È questo che non va giù ai restiamo umani a targhe alterne: i risultati, la chiarezza di una visione e la determinazione nel perseguirla, il coraggio dell’impopolarità con cui mettere in riga, contemporaneamente, i padrini di Confindustria e quelli dei sindacati ottocenteschi della Cgil Fiom. In un Paese di cacadubbi, di intriganti, di inconcludenti. Questi solidali autocertificati si incitano a restare umani ma paludarsi nelle magliettine rosse non gli serve, tradiscono la loro vera natura appena uno evapora nel suo male, come succede con la malattia più atroce; sono a immagine e somiglianza del titolo del Manifesto, che li consola perché è volgare in quel non dire, in quell’alludere di stampo clericale, in quello stravolgere la realtà a proprio uso e consumo. Ma le interviste ai cancelli di Mirafiori, con i dipendenti che già rimpiangono Marchionne, che si preoccupano per un nuovo avvento americano carico di incognite, che dicono senza ambiguità “mi dispiace”, inducono a chiedersi quanto possa ancora rappresentare quel che resta della classe operaia un foglio come il Manifesto o un modo di vedere l’uomo e la sua azione come quello del governatore toscano Rossi.

È stato detto che molto del malanimo con cui è stata celebrata l’agonia del manager che ha salvato il più grande gruppo italiano, sia pure al prezzo, inevitabile, di una sua diluizione nelle logiche della globalizzazione, si deve a null’altro che invidia, e c’è del vero, alla fine le passioni umane, incluse quelle che alimentano la visione politica ed economica, ricondotte alla loro essenza rifluiscono sempre a rancori anche infantili, a sensibilità immature, a imbarazzanti miserie culturali e morali. Oppure a quella smania di beatitudine che rappresenta l’altra faccia della medaglia, che nell’esagerazione del rimpianto sembra quasi tradire una sorta di maligno sollievo. Ma non è necessario fare di Sergio Marchionne il santo che non era, basta riconoscergli i risultati che gli spettano, il ruolo che era suo. Basta considerarlo un manager, un tecnico duro, astuto, colto, un provinciale che per tutta la vita non ha mai smesso di difendere le sue radici insieme superandone i limiti. Un uomo vero, in uno scenario di nani da giardino.

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