Due storie, due nazioni e due epiloghi diversi. È di giovedì scorso la sentenza da Londra che ha messo la parola fine ad una delle vicende giudiziarie britanniche più drammatiche degli ultimi anni: condanna all’ergastolo per Wayne Couzens, agente di polizia colpevole di aver rapito, violentato e ucciso a marzo la giovane Sarah Everard, 33 anni. Un fattaccio di cronaca nera che ha colpito l’opinione pubblica sin dall’inizio e che ha sollevato molte polemiche nei confronti dei vertici della Metropolitan Police, comunemente nota come Scotland Yard. Già nel 2018 i colleghi si riferivano a lui con l’appellativo di “The Rapist”, lo stupratore, e dal 2015 Couzens si era reso protagonista di comportamenti molesti nei confronti di donne e ragazze. Mai sospeso né messo sotto inchiesta, nella sua carriera è riuscito ad entrare nella Parliamentary and Diplomatic Protection Unit, il corpo della polizia che si occupa della sicurezza a Westminster.
Alla sbarra mediatica sono inevitabilmente finiti i vertici della polizia metropolitana londinese e in particolare il suo commissario Cressida Dick, che ha dovuto schivare i colpi arrivati dai mezzi d’informazione, dalla politica e dalle diverse associazioni che hanno denunciato il clima di sfiducia che si è creato tra la polizia e i cittadini – e soprattutto con la popolazione femminile: nelle ore seguenti alla condanna la richiesta di dimissioni della Dick è stata avanzata anche da Harriet Harman, parlamentare laburista che ha ricoperto il ruolo di ministro per le pari opportunità con Tony Blair e nota per il temperamento moderato, non propensa a seguire gli umori generali e a chiedere facilmente lo scalpo di presunti responsabili.
L’Home Secretary Priti Patel ha definito uno scandalo l’omicidio di Sarah Everard, esprimendo “rabbia e dolore prima come donna che come ministro” e ha sottolineato come siano necessari dei cambiamenti nelle modalità con le quali vengono condotte le indagini per abusi e violenze sessuali, pur confermando al momento la fiducia in Cressida Dick. La richiesta bipartisan è però netta: la polizia deve lavorare per riconquistare la fiducia dei cittadini, fornire risposte adeguate e tornare alle basi della sua funzione, impedire che i crimini vengano commessi, non limitarsi ad investigare dopo che siano avvenuti. Un richiamo forte a principi come accountability (il dover rispondere delle proprie azioni) e scrutiny (un minuzioso esame dei fatti) per rimediare ai gravi errori commessi.
Negli stessi giorni in cui si celebravano le ultime battute del processo a Couzens, in Italia veniva assolto dalle accuse di associazione a delinquere ai fini dell’immigrazione clandestina l’ex ambasciatore in Kosovo Michael Giffoni. Sette anni di processi, la sospensione e la radiazione dal Ministero degli esteri, problemi di salute e una vita personale distrutta: la notizia è arrivata e, dopo le iniziali reazioni, è per lo più già passata in secondo piano. Intervistato dal Corriere della Sera, Giffoni ha raccontato il senso di abbandono dalle istituzioni che ha dovuto sperimentare e il dramma che lo ha inevitabilmente segnato: “Sogni, non ne ho più. Volevo solo uscire pulito. Ce l’ho fatta”. È solo l’ultimo capitolo della tribolata storia giudiziaria italiana, all’interno della quale i principi di accountability e scrutiny restano compressi da posizioni ideologiche e sensazionalistiche, specialmente quando sono coinvolte autorità e corpi statali. Una perfetta via di fuga per sfuggire dalle responsabilità che si ricoprono.
Spot the difference.