Politica, informazione, commercio, reti strategiche, industria: il Governo Conte 2 sempre più compromesso con la Cina volta le spalle all’alleato Usa. I “regali” di Di Maio (e Renzi prima di lui) a Pechino e la propaganda del PCC sul blog di Beppe Grillo
Firmi un memorandum con Pechino e ti ritrovi l’ambasciatore cinese che minaccia il tuo Paese in tv, all’interno del tg serale della seconda rete pubblica. Intervistato domenica sera dal Tg2 sulle proteste a Hong Kong – mentre la polizia in tenuta antisommossa metteva sotto assedio il Politecnico, dove sono ancora asserragliati centinaia di studenti – l’ambasciatore Li Junhua ha in pratica diffidato l’Italia dall’ospitare Joshua Wong, definito “un clown impegnato a gettare benzina sul fuoco, che ha fatto domanda per lasciare Hong Kong pur essendo in libertà su cauzione”. La Cina, ha avvertito, “è contraria a che qualsiasi governo fornisca supporto alle attività indipendentiste di Hong Kong”.
Uno dei volti più noti del movimento pro democrazia a Hong Kong e segretario di Demosisto, Joshua Wong ha già testimoniato davanti al Congresso Usa ed era stato invitato a Roma dal Partito Radicale e dal vicepresidente del Copasir Adolfo Urso, avrebbe dovuto portare la sua testimonianza in Italia a fine novembre, ma il Tribunale gli ha negato il permesso di viaggiare – oltre che di candidarsi alle elezioni dei consigli distrettuali del 24 novembre prossimo.
Un episodio simile è accaduto nei giorni scorsi in Svezia. L’ambasciatore cinese a Stoccolma, Gui Congyou, ha intimato al ministro della cultura svedese di non partecipare ad una cerimonia di premiazione di Gui Minhai, un cittadino svedese di origini cinesi detenuto in Cina per aver pubblicato a Hong Kong libri critici sulla leadership di Pechino: “Se il ministro Amanda Lind, nonostante i nostri consigli, partecipa alla cerimonia, nessun rappresentante governativo responsabile della cultura sarà il benvenuto in Cina”.
L’intimidazione e la minaccia sono le tipiche modalità cui fa ricorso Pechino, come ha spiegato Alessandra Bocchi qualche giorno fa su Atlantico, per impedire a governi, istituzioni o privati stranieri di impicciarsi dei suoi “affari interni” mettendo in discussione il “sistema” di potere del Partito comunista cinese. E ha gioco facile nel farlo, ricattando chiunque, Paesi occidentali, asiatici o africani, dipenda dai mercati e dagli investimenti cinesi – proprio il commercio che doveva essere la chiave per liberalizzare e democratizzare la Cina, è invece la più efficace arma politica del regime comunista per silenziare l’Occidente.
C’è anche chi non ci sta: di fronte al diniego del visto a due parlamentari australiani per le loro posizioni di “franchezza nei confronti del governo di Pechino”, il governo australiano ha posto fine, dopo due decenni, ad un programma bilaterale di cooperazione sui diritti umani del valore di 7,4 milioni di dollari in tre anni.
Sull’Italia l’influenza della propaganda cinese si fa sentire, rafforzata dai recenti accordi tra i più importanti organi di stampa dei due Paesi (come Ansa–Xinhua), e l’arroganza dell’ambasciatore Li Junhua, che si sente libero di spadroneggiare al Tg2, ne è una prova. D’altronde, rispondendo a una domanda sulle proteste a Hong Kong durante la sua recente visita a Shangai, il nostro ministro degli esteri si era già fatto portavoce, e alla lettera, della linea di Pechino: “L’Italia non vuole interferire nelle questioni interne di altri Paesi”.
Di Maio ha annullato la sua partecipazione al vertice dei ministri degli esteri del G20 che si terrà a Nagoya venerdì e sabato prossimi, ufficialmente per quello che sta accadendo a Venezia, ma fonti giapponesi citate da Giulia Pompili del Foglio hanno fatto notare che è strano andare a una fiera “di second’ordine” a Shanghai ed evitare invece un summit G20. Pare che tra i talking points del bilaterale Italia-Giappone ci sarebbe stata anche la situazione ad Hong Kong.
A Washington per un incontro dei ministri degli esteri della coalizione anti-Isis, Di Maio si è di recente beccato la ramanzina del consigliere per la sicurezza nazionale Usa O’Brien, ha riportato Gabriele Carrer su La Verità, senza poter incontrare il segretario di stato Pompeo: a irritare i nostri alleati le ambiguità italiane su Iran, Cina e Spygate.
La sensazione è che ormai i vertici del Movimento 5 Stelle siano strumenti, consapevoli o inconsapevoli, nelle mani di Pechino. Non solo il capo politico Di Maio, ma anche il fondatore Beppe Grillo, che lungi dall’aver preso le distanze dal suo Movimento, ha benedetto l’alleanza con il Pd nel suo messaggio d’agosto ed è, quindi, a pieno titolo tra i principali artefici della nascita del Governo Conte 2 – insieme a Matteo Renzi (come vedremo un altro asset del regime cinese in Italia).
Mentre il New York Times pubblicava, sabato scorso, centinaia di documenti riservati del governo cinese che confermano le politiche repressive (“senza pietà”) di Pechino nello Xinjiang, in apertura sul blog di Beppe Grillo compariva un’analisi che non solo nega la repressione, ma addirittura tesse le lodi delle politiche del regime comunista cinese nella regione degli uiguri.
Nelle oltre 400 pagine di documenti, la più grande fuga di notizie da Pechino da decenni, si trovano tra le altre cose discorsi del presidente Xi Jinping e un manuale distribuito alle forze dell’ordine nella regione per spiegare agli studenti tornati a casa perché i loro famigliari sono spariti. “Uno spaccato di come la macchina di stato cinese ha portato avanti una delle maggiori campagne di reclusione dall’era di Mao”, scrivono i due giornalisti del NYT. Campi di indottrinamento, controllo orwelliano sulla popolazione e “nessuna pietà” nei confronti della popolazione musulmana della regione. Nell’aprile del 2014, a poche settimane dall’accoltellamento di 150 persone, il presidente Xi in persona ordinò di utilizzare gli “organi della dittatura contro il terrorismo, le infiltrazioni e il separatismo senza mostrare alcuna pietà”.
Solo che gli “strumenti” della dittatura si sono spinti un po’ troppo oltre, se secondo le stime hanno portato all’incarcerazione da 1 milione fino a 3 milioni di persone. Una realtà che il Partito Radicale sta denunciando dal 2016 e che ha cercato di portare all’attenzione del Parlamento italiano, scontrandosi però con le intimidazioni cinesi che portarono l’allora presidenza del Senato (Pietro Grasso) a vietare l’ingresso a Palazzo Madama al presidente del Congresso mondiale uiguro, Dolkun Isa, invitato a testimoniare dal senatore Luigi Compagna, un rappresentante eletto dal popolo italiano.
Con tempismo perfetto, il blog di Beppe Grillo risponde allo scoop del New York Times pubblicando Xinjiang: “Nuova Frontiera”, un’analisi di Fabio Massimo Parenti, professore associato alla China Foreign Affairs University di Pechino e membro del think tank cinese CCERRI, ma anche firma del Global Times, organo del Partito comunista cinese il cui direttore, Hu Xijin, domenica sera ha lanciato su Twitter un appello all’uso delle armi da fuoco contro i “terroristi” di Hong Kong. Un’analisi che vuole confutare “una campagna mediatica sui diritti umani volta a screditare l’operato del governo cinese”. “Non vi sono corrispondenze reali alle accuse di repressione”, scrive Parenti, mosse da organizzazioni “significativamente collegate al governo degli Stati Uniti”. Anzi, quello tra etnia han e uiguri sarebbe addirittura un modello di convivenza, afferma citando Maria Morigi, secondo cui c’è “una buona convivenza tra han e uiguri e non si percepisce alcun tipo di discriminazione”. I due, Parenti e Morigi, firmavano nel giugno scorso un articolo, sempre per il blog di Beppe Grillo, che bollava le proteste a Hong Kong come “tentativi di destabilizzazione” organizzati dall’Occidente. Altro che non ingerenza, qui siamo al megafono del Partito comunista cinese.
Oltre alla Via della Seta, al bavaglio e alla propaganda, un altro regalo del Movimento 5 Stelle alla Cina è l’esplosione del caso ex Ilva, come annotavamo qualche giorno fa su Atlantico. Devastazione economica, sociale e ambientale a parte, il ritiro di ArcelorMittal da Taranto rischia infatti di rivelarsi una bomba anche geopolitica.
La multinazionale, ma anche tutti i sindacati, avevano inequivocabilmente avvertito che la soppressione dello scudo penale avrebbe portato alla rescissione del contratto. Nessuno poteva non sapere. Dunque, il Movimento 5 Stelle, presentando l’emendamento per sopprimerlo con l’approvazione di Di Maio in persona, Pd e renziani, votandolo, hanno deliberatamente spinto il gruppo franco-indiano, il più grande del mondo, a desistere dall’acquistare l’ex Ilva, o almeno messo nel conto di poter provocare il suo disimpegno. Perché? Cui prodest? Chi si avvantaggia di più da questo duro colpo inferto all’industria siderurgica italiana ed europea?
Oggi la posizione dominante in Europa non ce l’ha un produttore europeo piuttosto che un altro, ce l’hanno le importazioni asiatiche, in particolare quelle cinesi accusate di dumping. La chiusura dell’ex Ilva, tra i più grandi impianti in Europa, aprirebbe ancor di più le porte alle importazioni cinesi.
Il caso ha voluto che mentre in Italia esplodeva la “bomba” dell’ex Ilva, il ministro Di Maio fosse proprio in Cina, a Shanghai, per il China International Import Expo (CIIE), ricevuto con tutti gli onori dal presidente Xi Jinping e lodato dal ministro degli esteri Wang (“un politico giovane molto in gamba” con “una grande visione strategica”). Non è un caso invece che, solo poche ore dopo il giuramento, Di Maio abbia nominato suo capo di gabinetto alla Farnesina Ettore Francesco Sequi, ambasciatore d’Italia a Pechino. Come il ministro ha ammesso a Shanghai, l’adesione alla Nuova Via della Seta è “prima di tutto una grande apertura di relazioni tra noi e la Cina, è una grande apertura di credito reciproca. Va oltre la semplice questione degli investimenti e del commercio estero”. Parole che suonano come una conferma dei peggiori timori americani sul valore politico, e geopolitico, della firma del memorandum tra Roma e Pechino.
Non solo la crisi, forse finale, della siderurgia italiana apre ancor di più le porte alle importazioni di acciaio cinese. Dopo la recente entrata dei cinesi in un grande impianto siderurgico in Serbia e la proposta di salvataggio di British Steel all’inizio della settimana scorsa, guarda caso spunta una soluzione “cinese” anche per l’ex Ilva di Taranto, un’ulteriore resa delle risorse strategiche del nostro Paese nelle mani di Pechino. Da Shanghai, Di Maio non aveva negato di aver riscontrato interesse da parte cinese durante gli incontri, tranne poi dichiarare al suo rientro, a Radio24, “se mi chiedete se abbia cercato di piazzare Ilva ai cinesi la risposta è no. C’è Mittal e non possiamo permettere che se ne vada”.
Eppure, qualche segnale di una possibile “via dell’acciaio” lo abbiamo registrato. Secondo quanto riporta La Verità, Romano Prodi, da sempre amico di Pechino, e Giovanni Bazoli avrebbero accolto a Venezia il finanziere cinese Eric Li, fondatore e managing partner di Chengwei Capital (e sostenitore ancora oggi dell’intervento armato a Piazza Tianamnen), anche per invitarlo al tavolo della partita ex Ilva.
E al Sole 24 Ore fonti governative italiane hanno confermato che all’inizio di questa settimana l’Esecutivo incontrerà i consulenti di Ernst&Young che hanno lavorato alla proposta di acquisto arrivata dalla società cinese Jingye per la British Steel, molto simile all’ex Ilva per le criticità societarie e ambientali. “L’appuntamento – scriveva domenica il Sole – è per il momento soltanto interlocutorio, ma introduce in maniera indiretta l’ipotesi di un interessamento dei cinesi al destino dello stabilimento di Taranto”.
Ma per amore di verità, bisogna ricordare che la svendita di pezzi dei nostri asset strategici alla Cina ha avuto un’accelerazione decisiva con i governi Letta e Renzi, quando per esempio si è permesso al colosso statale dell’energia cinese, State Grid Corporation of China, di entrare in Cdp Reti con il 35 per cento delle quote. La Banca centrale cinese possiede quote importanti in grandi compagnie strategiche italiane, sia del settore energetico come Eni, Enel e Terna, che finanziario, come Intesa San Paolo, Unicredit e Generali. Poi naturalmente c’è il tema del ruolo di Huawei nella rete 5G.
Di qualche giorno fa, sul Corriere, la notizia dell’inchiesta che vede l’ambasciatore Antonio Morabito accusato di aver passato ai cinesi informazioni sulle nostre aziende – comprese indiscrezioni per “i cinesi interessati ad acquistare tecnologia italiana nel settore delle telecomunicazioni per conto di Huawei“, il colosso finito nel mirino del presidente Trump – sfruttando il suo incarico e i rapporti privilegiati anche all’interno del Ministero dello sviluppo economico.
Gli investimenti cinesi pongono problemi diversi rispetto ai normali investimenti esteri. Si tratta infatti di società solo nominalmente private, come il gruppo Jingye o Huawei, ma in realtà in Cina nessuna organizzazione o impresa è al di fuori del controllo del PCC. Per legge sono chiamate a obbedire agli ordini del regime. Come ha spiegato Martin Thorley su Foreign Policy, “non esistono casi di aziende cinesi che usano la legge per resistere alle richieste del PCC nel modo in cui, ad esempio, Apple ha sfidato l’FBI nel 2015 sulla questione della crittografia; l’idea stessa sarebbe assurda. Comprendere questa distinzione è vitale per chiunque voglia creare legami con la Cina”.
La grave debolezza politica ed economica del nostro Paese, la deindustrializzazione in atto, ci rendono l’anello debole della catena occidentale, una facile preda per Pechino che conquistando noi punta ad aumentare la sua influenza in Europa per allontanarla dagli Stati Uniti. Se anche l’ex Ilva non dovesse finire in mani cinesi, la crisi del siderurgico italiano aprirebbe ancor di più le porte, non solo nostre ma dell’intera Europa, alle importazioni di acciaio cinese.
Altro che hate speech e bot russi, bisognerebbe istituire una commissione parlamentare che indaghi sull’influenza di Pechino nelle scelte di politica estera e industriale dei nostri ultimi governi.