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Sicuri che non cambia niente? Ecco perché le vittorie dei “sovranisti” metteranno a dura prova il sistema politico di Maastricht

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In Italia trionfa la Lega di Salvini (e con Meloni i sovranisti superano il 40 per cento); in Francia Le Pen è sopra Macron (un punto percentuale in meno di cinque anni fa, ma con mezzo milione di voti in più); Farage strapazza tutti nel Regno Unito (che, certo, uscirà dall’Ue, ma di “Bregret” non c’è traccia…); Orban stravince in Ungheria (con diversi punti in più di affluenza); in Germania è crisi SPD-CDU, mentre raddoppiano i Verdi (diversamente europeisti) e l’AfD pur non crescendo a livello nazionale è primo partito in due importanti Länder orientali, Brandeburgo e Sassonia.

Insomma, ci sono pochi dubbi sul fatto che Salvini, Le Pen, Farage e Orban siano usciti vincitori da queste elezioni europee. Non gli unici, ma hanno vinto. Eppure, leggiamo e sentiamo ripetere in queste ore che i cosiddetti sovranisti “deludono”, “non sfondano”. Essendo i quattro suddetti i principali leader, i frontmen del “movimento sovranista”, non si capisce bene chi siano questi sovranisti che avrebbero “deluso”. È sufficiente che qualche partito di estrema destra, magari in Olanda, Finlandia o Belgio, non sia arrivato primo, limitandosi ad andare “solo” in doppia cifra, per concludere che i sovranisti abbiano deluso?

A che altezza era fissata l’asticella della vittoria? Forse perché non sono maggioranza a Strasburgo e lo spauracchio dell'”ondata nera” non si è materializzato, allora “hanno deluso”? Non bisogna essere scienziati politici per capire che è quasi impossibile che arrivino “maree” di qualsiasi colore da elezioni parlamentari che vedono coinvolte 28 nazioni di dimensioni diversissime, ognuna con la sua storia e la sua fase politica, la sua specificità interna, le sue condizioni socio-economiche. E, soprattutto, con un sistema di voto proporzionale puro è molto difficile assistere a vittorie landslide, come se si trattasse del Congresso Usa.

Un primo paradosso del voto di domenica è che elezioni europee tra le più partecipate di sempre non hanno visto i partiti europeisti tradizionali, quelli che fino ad oggi hanno sostenuto e governato il processo di integrazione, staccare i dividendi che erano convinti di meritare, ma in profonda crisi.

Colpisce poi la schizofrenia di commentatori, inviati e cosiddetti “esperti” che, prima e dopo il voto, da una parte hanno fomentato l’allarmismo sul pericolo fascista, dall’altra si sono prodigati per convincerci che nemmeno le vittorie dei presunti “fascisti” in importanti Paesi fondatori dell’Ue avrebbero cambiato qualcosa negli equilibri del prossimo Parlamento europeo. Solo perché, mani al pallottoliere, cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia: viene fuori comunque una maggioranza europeista, inutile agitarsi tanto, i sovranisti hanno perso e non conteranno nulla. Ma sarà proprio così? A noi pare troppo semplicistico anche immaginare di dividere le forze politiche rappresentate a Strasburgo in due fronti omogenei contrapposti: europeisti vs anti-europeisti.

Il terremoto, in realtà, c’è stato e avrà eccome effetti sulla governabilità del sistema di Maastricht.

Primo, perché una maggioranza parlamentare non è mai solo un fatto numerico, non basta la semplice sommatoria dei gruppi che la compongono. A ben vedere, se è difficile per i sovranisti di diversi Paesi costruire alleanze, trovare un terreno comune su cui lavorare, lo è stato e lo sarà anche per i partiti europeisti.

Si dimentica spesso poi che i due maggiori gruppi che hanno condiviso in questi decenni la gestione delle istituzioni Ue, PPE e SD, appartengono a due famiglie politiche molto diverse – democristiana e socialista – come molto diversi sono gli elettorati a cui rispondono. Rispetto alla scorsa legislatura europea si ritrovano oggi con 40 seggi in meno a testa e non hanno più la maggioranza assoluta a Strasburgo – di fatto una Grossa Coalizione alla tedesca, una formula politica che nella stessa Germania ormai da più di un turno elettorale mostra tutta la sua inadeguatezza e sembra abbia esaurito la sua funzione storica.

Basterà sommare ai due i seggi di un altro gruppo “europeista” e il gioco sarà fatto? Non cambierà niente? Non è proprio così a nostro avviso. Se già si è dimostrata complicata e politicamente costosa la convivenza tra PPE e SD, lo sarà ancor di più da oggi, trovandosi entrambi i gruppi sotto pressione per la perdita costante di voti, a livello sia europeo che nazionale. Ebbene, di questa compagine sempre più fragile dovrebbero entrare a far parte altri soci, l’Alde o i Verdi, a loro volta con le loro specificità, i loro obiettivi e le loro spinte. Insomma, se i numeri per una maggioranza europeista a tre ci sono, e tutto indica che sia una scelta obbligata, il sospetto che possa rivelarsi un suicidio politico è più che fondato e crediamo che cominci a serpeggiare anche negli stessi contraenti.

D’altra parte, è ragionevole immaginare che i partiti europeisti tradizionali cercheranno di rispondere alla crisi ritrovando i consensi perduti, a sinistra quelli socialisti e a destra i popolari, e questo renderà ancora più difficoltosa la collaborazione con l’Alde o i Verdi. Sembra avviarsi alla conclusione, se non già conclusa, l’epoca del PPE centrista di impronta merkeliana, anche se ciò non significa (almeno non ancora) un’alleanza con la destra sovranista. Molti dei partiti aderenti al PPE si sono già spostati a destra per cercare di arginare, qualcuno con successo (vedi Kurz in Austria o Rutte in Olanda), i partiti nazionalisti e populisti dei loro Paesi.

Per non parlare del nodo Orban. Che il suo partito Fidesz resti o meno nel PPE, da cui potrebbe essere cacciato o sfilarsi, non potrà non avere un impatto sul gruppo e delle conseguenze nei rapporti di forza nel Parlamento europeo ma anche nel gioco tra i governi.

Secondo, si dimentica che l’Ue è una unione intergovernativa, non federale. I giochi li fanno i governi e il perno del sistema si trova a Berlino e Parigi. Se entrano in crisi le formule politiche che governano Francia e Germania, rischiano di entrare in crisi anche le istituzioni europee. Ancora più difficile della gestione della coalizione extralarge al Parlamento europeo, sarà infatti il rebus della composizione della nuova Commissione. A dare le carte saranno Merkel e Macron, certo, ancora in sella ma per diverse ragioni entrambi molto indeboliti. Ma con i sovranisti al 40 per cento in un grande Paese fondatore dell’Ue come l’Italia, e primo partito nell’altro grande fondatore, la Francia, con i governi di Visegrad rafforzati, i britannici che mostrano di non avere rimpianti (anzi hanno punito i Tories per la mancata Brexit), saranno così miopi da non tenere conto del risultato uscito dalle urne? Se il partito di Marine Le Pen non troverà ovviamente posto nei nuovi vertici Ue, come negare alla Lega di Salvini e al Fidesz di Orban almeno un loro uomo nella nuova Commissione? E come farli digerire a una maggioranza PPE-SD-Alde?

E veniamo all’Italia. Ancora una volta abbiamo assistito al ridicolo flop di exit poll, sondaggi e previsioni dei soliti “esperti”. Nelle ultime due settimane non hanno fatto altro che annunciarci il calo della Lega, tanto da mancare l’obiettivo del 30 per cento, e il recupero di Di Maio che finalmente metteva alle corde Salvini. Sondaggi ed exit poll si sono piegati a questa narrazione attribuendo alla Lega in media un 28 per cento, qualcuno persino un misero 26. E ve le ricordate le dotte analisi sul nord produttivo, il “partito del Pil”, che ormai doveva aver abbandonato Salvini? Fake news, i risultati gli hanno dato ragione.

Questo naturalmente non significa che il leader della Lega possa permettersi di adagiarsi sul risultato di domenica. Ora è in una posizione molto favorevole, i rapporti di forza nel governo si sono ribaltati, ha la possibilità di dire agli alleati del 5Stelle, che hanno tutto l’interesse a restare abbarbicati alle loro poltrone, “o si fanno le nostre cose, o tanti saluti, c’è un nuovo centrodestra”. Ma non deve commettere l’errore di pensare, come Renzi, che il suo momentum duri per sempre, ed è chiamato ad un esame di maturità politica, da leader politico a uomo di governo. La domanda è quanto tempo gli elettori gli concederanno. Il rischio è che giocare con l’Ue la partita della prossima legge di bilancio zavorrato dai 5Stelle possa essergli fatale.