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Solo chi lo circonda può fermare Putin: Russia ormai un’autocrazia

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Un dittatore nel suo labirinto: un’indagine sul sistema di potere putiniano, la sua evoluzione personalistica negli anni e le possibilità di regime change dall’interno

In un lungo articolo del 2019 sulle caratteristiche del sistema politico costruito da Vladimir Putin definivo quella russa “una transizione incompiuta con costanti ricadute autoritarie”. Provando a spiegare perché nessuna delle definizioni politologiche adottate fino a quel momento esaurissero il fenomeno, individuavo nella vittimizzazione e nell’affermazione di un’identità in negativo due degli elementi centrali del putinismo:

“(…) la Russia attuale sembra soffrire di questa crisi di identità, della mancanza di un progetto condiviso che non sia rappresentato solo dalla contrapposizione con l’Occidente e non dipenda esclusivamente da una sensazione costante di isolamento o esclusione. Putin, il redentore dell’orgoglio russo ferito, l’uomo forte che ufficialmente ha riportato il paese al centro dello scenario internazionale, non è mai riuscito in realtà a sottrarlo a una logica vittimista, anzi l’ha alimentata: tattico di prim’ordine, è stato incapace di offrire ai russi una strategia coerente di auto-affermazione fuori dai propri confini e soprattutto di creare una nuova narrativa, un romanzo russo alternativo a quello dell’epoca totalitaria e alle sue ceneri. Quel che manca è un’idea di Russia per il XXI secolo, al di là della continuità nel potere e dell’accentramento delle decisioni fondamentali. Si nota a tutti i livelli, dalla scelta della classe dirigente alla gestione delle proteste, in cui l’approccio politico è stato totalmente assente”.

I recenti avvenimenti in Ucraina e le motivazioni addotte dallo stesso Putin per giustificare l’invasione sembrano confermare questa analisi: andarsi a riprendere l’Ucraina significa, nella prospettiva revisionista di Mosca, tentare di ricostruire l’identità perduta con il crollo dell’Unione Sovietica. C’è però un elemento, a cui all’epoca accennai solo di sfuggita, che merita oggi di essere evidenziato con maggior enfasi, la questione dell’accentramento del potere. L’incapacità da parte di autorevoli analisti e degli stessi governi occidentali di prevedere l’aggressione armata dipende in buona misura dalla sottovalutazione del livello di personalizzazione nei processi decisionali interni al regime. Ultimamente è molto in voga l’uso del termine autocrazia per riferirsi ai sistemi autoritari. Il più delle volte si tratta di una definizione inappropriata, considerando che la definizione di autocrate fa riferimento al potere assoluto di una sola persona, come nel caso degli zar fino alla rivoluzione di febbraio. Pochi regimi al mondo sono oggi classificabili come autocrazie in senso stretto, essendo per lo più espressione di partiti unici al potere o di strutture in cui un’entità politica dominante finisce per imporsi e assorbire anche le funzioni tradizionalmente spettanti all’opposizione parlamentare.

Quest’ultimo è stato anche il caso del putinismo fino al 2014, anno dell’annessione della Crimea. Da quel momento l’accentramento delle decisioni in un unico centro di potere, nei fatti in una sola persona, si è accentuato progressivamente fino farsi elemento costitutivo della natura del regime: oggi la Russia può a buon diritto essere considerata una autocrazia e Putin il suo despota assoluto. Anche l’aspetto scenografico conferma questa conclusione. La distanza fisica che il presidente russo frappone tra sé e i suoi interlocutori, non solo i mandatari stranieri ma anche i suoi più stretti collaboratori, indica la necessità di rimarcare la sua posizione preminente. Il grottesco spettacolo offerto dalla riunione del Consiglio di Sicurezza pochi giorni prima della guerra, in cui il sovrano umiliava i membri della corte costretti a recitare (letteralmente) il ruolo di comparse di una rappresentazione teatrale, appartiene più all’epoca dell’assolutismo monarchico che alle categorie di una dittatura contemporanea.

Quando Eltsin lo scelse come suo successore, Putin entrava nella stanza dei bottoni come un leader forte, dai tratti vagamente populisti, deciso a incarnare l’esigenza di sicurezza e ordine prodotta dal vuoto e dalla confusione del primo decennio post-comunista. Le elezioni presidenziali del 2004, stravinte ufficialmente con il 71 per cento dei voti, segnavano l’inizio di una svolta autoritaria ancora temperata da un’opinione pubblica relativamente libera di esprimere il suo dissenso attraverso i media e la piazza. Le proteste del biennio 2011-2013, a cavallo della contestata rielezione del 2012, sancivano la rottura definitiva con la società civile. Ma il presidente, neutralizzata la via dell’alternanza e garantitosi la permanenza sine die al vertice dello Stato, non era ancora l’uomo solo al comando che conosciamo oggi. Il suo entourage, sempre più ristretto, garantiva comunque una certa collegialità nelle decisioni fondamentali, compresa l’annessione della Crimea.

Dal 2014, però, l’ossessione ucraina ha dominato la politica estera del Cremlino, impegnato in una costante opera di destabilizzazione dello Stato confinante tramite la guerriglia filo-russa del Donbass. Allo stesso tempo l’isolamento del leader si accentuava, la cerchia di fedelissimi che fino a quel momento partecipava al processo deliberativo si trasformava in un gruppo di yes men incapaci di contraddirlo, mentre la sua figura si fondeva con quella di uno Stato dai tratti sempre meno istituzionali e sempre più patrimoniali. La riforma costituzionale del 2020 ne eternizzava il ruolo di padre della nazione, sul modello centro-asiatico. Putin si faceva ideologo, storico, arbitro del destino non solo del suo Paese ma anche di quelli che considerava appartenenti alla sfera di influenza russa: la dottrina Putin diventava l’orizzonte ufficiale del nuovo nazionalismo panrusso.

Fino alla dichiarazione di guerra alla sovranità statuale dell’Ucraina. Una decisione impensabile per chi (compreso il sottoscritto) continuava a ritenere che Putin non agisse in solitario sulle questioni di preminente interesse nazionale, che i siloviki avessero ancora voce in capitolo sulle decisioni finali. Ma l’umiliazione pubblica dei suoi principali collaboratori nella rappresentazione farsesca del Consiglio di Sicurezza ha rivelato in mondovisione l’inquietante realtà: il regime ibrido degli anni scorsi si è trasformato in una dittatura personalistica con seimila testate nucleari a disposizione. La guerra di Putin non è solo un efficace ricorso retorico ma lo specchio di una situazione in cui tutto dipende dalla volontà di un dittatore nel suo labirinto, perfino la vita e la morte delle popolazioni altrui. La stretta definitiva sui mezzi di comunicazione, culminata nella criminalizzazione delle notizie non censurate e nella chiusura delle poche testate non completamente allineate al potere, la fuga delle imprese straniere in seguito alle sanzioni post-invasione, la condanna internazionale, relegano i russi a una condizione di isolamento collettivo, riflesso inquietante della paranoia (auto)distruttiva del suo autocrate. Una decisione personale che non esclude peraltro un certo grado di consenso all’interno della società.

Chi o che cosa può fermare una deriva di questo genere? La morte (per cause naturali o indotte), una rivolta popolare, un colpo di stato, la defezione delle élites. Sull’azione della divina provvidenza o su un tirannicidio vecchio stampo è difficile contare. La seconda opzione – proteste anti-regime che ne provochino la caduta – in questo momento è quasi altrettanto improbabile. La Russia è ormai uno Stato di polizia in assetto militare, le manifestazioni sono proibite, la censura è capillare, le intimidazioni e gli arresti nei confronti di chiunque osi pronunciarsi pubblicamente contro il governo sono all’ordine del giorno. Navalny languisce in prigione e non si vedono all’orizzonte leader popolari che possano organizzare un’opposizione di piazza. Le proteste contro la guerra dei primi giorni sono presto rientrate dopo la prima ondata di repressione. È difficile perfino sapere di che popolarità godano in questo momento nel Paese Putin e la sua guerra, visto che ufficialmente il conflitto non esiste e non tira aria di sondaggi attendibili, considerando il blocco informativo e la propaganda.

È vero che non ci sono nemmeno adunate pro-invasione ma il profilo basso è stato scelto dal Cremlino che sperava in una vittoria-lampo. Ogni giorno che passa aumenta la frustrazione in una società soggetta a pesantissime sanzioni finanziarie e la variabile tempo risulterà decisiva nel medio periodo per capire fino a che punto i russi siano disposti a sopportare il peso dell’esclusione dai circuiti economici, professionali e culturali internazionali. Nel decennio eltsiniano, nonostante le difficoltà economiche, la Russia sperimentò una primavera di libertà pubbliche e private unica nella sua storia. La memoria di quel periodo è viva in una classe media già abituatasi a standard di vita occidentali, per cui un ritorno ai tempi sovietici rappresenterebbe la fine di ogni prospettiva di futuro. In quanto ai giovani, i ventenni che hanno conosciuto solo il putinismo, sono oggi i più attivi nelle proteste di piazza, esponendosi in prima persona alla repressione. Ma l’idea che queste categorie possano unirsi per rovesciare un regime verticistico fino al parossismo resta al momento illusoria.

Per analizzare le prospettive di colpo di stato e di defezione delle élites bisogna prima accennare alla struttura dell’apparato di potere in Russia. Il sistema Putin si basa su quattro pilastri: gli oligarchi, l’esercito, il servizio segreto (FSB), gli “uomini forti” (siloviki). La loro rilevanza nella piramide statale è diseguale e spesso le attribuzioni si sovrappongono, come nel caso dei siloviki e degli apparati di sicurezza. Gli attuali oligarchi, a differenza dei tycoon dell’era Eltsin, sono apparatchik destinati da Putin alla gestione delle imprese statali. La loro influenza politica, anche in tempi di minore centralizzazione, è sempre stata molto limitata, dipendendo totalmente dal loro patrocinatore. Se cade lui, cadono anche loro. La cleptocrazia russa si fonda su questa unione sacra tra politica e affari, un cambio di regime aprirebbe a molti di loro le porte dei processi per corruzione.

Anche l’esercito è sotto pressione per diverse ragioni. La lealtà del capo di stato maggiore, Valery Gerasimov, sembra fuori discussione ma la conduzione della guerra in Ucraina si sta rivelando più problematica del previsto. La vittoria-lampo non c’è stata, la resistenza ha superato ogni aspettativa della vigilia, quella che doveva essere una “operazione speciale” si è trasformata in un conflitto su larga scala. Se Putin può nutrire dubbi sull’efficacia della strategia adottata, l’insoddisfazione dei militari è destinata a crescere con il passare del tempo. Le sanzioni vanno ad intaccare direttamente la capacità di sostenere l’enorme complesso bellico-industriale: se lo Stato non può pagare i suoi funzionari, anche i soldati sono a rischio, senza contare il costo di un’invasione prolungata dal punto di vista delle tecnologie militari.

Figura chiave in questo delicato equilibrio è il ministro della Difesa, Sergei Shoigu. Considerato il vero braccio destro di Putin, almeno fino alla deriva personalistica già analizzata, anello di collegamento fra siloviki ed esercito, è nei fatti il responsabile ultimo della campagna d’Ucraina. Nell’ultimo Consiglio di guerra ha sorpreso gli analisti la distanza fisica che Putin ha interposto tra se stesso e il duo Shoigu-Gerasimov, attorno al già famoso tavolo allungato. Il ruolo di numero due, con un numero uno del calibro di Putin, è allo stesso tempo un rischio e un’opportunità: da una parte il ministro si trova in posizione privilegiata in caso di successione più o meno precipitata, dall’altra è il più esposto ad essere additato come capro espiatorio in caso di insuccesso in Ucraina. Il che, come ha suggerito Leonid Volkov, stretto collaboratore di Navalny, potrebbe originare un conflitto interno all’élite che circonda il presidente, ormai mantenuta all’oscuro dei suoi piani e relegata al margine delle decisioni. È in questo snodo della catena del potere che potrebbe più facilmente prodursi un golpe bianco. Ed è probabilmente sulla defezione delle élites che stanno puntando i servizi segreti occidentali (leggasi americani) che, come dimostrato nel caso dei piani di invasione, godono di buone entrate nei palazzi moscoviti.

Non è il caso di farsi troppe illusioni, però. Nel corso degli anni Putin ha blindato il suo potere formale con vari livelli di protezione che lo rendono praticamente inattaccabile. Ha avuto cura di sistemare i suoi sodali del clan di Leningrado nei posti chiave dell’apparato di sicurezza: Nikolai Patrushev alla testa del Consiglio di Sicurezza nazionale, Sergei Narishkyn a capo del servizio di intelligence per l’estero (il che non gli ha risparmiato l’umiliazione pubblica in diretta tv), Alexander Bortnikov a dirigere l’FSB. Ha rafforzato la sua incolumità personale con una sorta di guardia pretoriana (FSO), erede diretta del nono direttorato del KGB. Ha creato nel 2016 un esercito di giannizzeri incaricati dell’ordine interno alla Federazione, 350 mila effettivi riuniti sotto la sigla Rosgvardia, o guardia nazionale. A chiudere il cerchio il dipartimento di controspionaggio militare del FSB, cui è affidato il compito di vigilare l’esercito per prevenirne tentazioni golpiste. I precedenti dell’ultimo secolo non sono incoraggianti ma lasciano aperto qualche spiraglio: Nicola II fu costretto ad abdicare in seguito a una rivolta spontanea di soldati e operai, Lenin e Stalin morirono per un colpo apoplettico ma Kruschev fu rimosso da una congiura di palazzo mentre era in vacanza. Il trono di Russia, osservava un diplomatico napoletano ai tempi di Caterina II, “non è né elettivo, né ereditario: è occupativo”. Chi se lo prende si guadagna il diritto di mantenerlo.